GIORNATE SIEFPP 2020

L’ascolto psicoanalitico

Efficacia e fattori terapeutici della psicoterapia

Recensione

Il volume, prezioso completamento al mandato di Presidente SIEFPP della dottoressa Maria Antonietta Fenu, raccoglie gli interventi che hanno animato la Giornata SIEFPP 2020, che segue a quella del 20018 (“Nuove forme del malessere e psicoterapia psicoanalitica” e a quella del 2019 (“Dentro le mura: fenomeni dissociativi intrafamiliari e intraistituzionali”). Le quindici Società scientifiche della SIEFPP che si occupano di Psicoterapia Psicoanalitica da prospettive diverse, distribuite in quattro Sezioni (Adulti, Gruppi, Bambini e Adolescenti, Coppie e Famiglie), hanno prodotto interessanti contributi che sono stati raccolti nel Volume “L’ascolto psicoanalitico. Efficacia e fattori terapeutici della psicoterapia”. L’ascolto psicoanalitico, terreno comune di riferimento, sonda attraverso la quale interrogare l’attuale che si presenta attraverso sempre nuove forme di malessere (la“clinica del vuoto”, le “passioni tristi”), è il tema variamente dibattuto che sollecita un’attenta verifica delle collaudate competenze, estendendo l’applicazione del modello psicoanalitico “fuori divano” (Racamier, 1973), a setting diversi: di gruppo, di coppia, di famiglia. Di fronte a forme nuove di disagio, sono stati registrati differenti modi di esistere e di narrarsi, di sentirsi vivi e di contattare il desiderio, di stare al mondo con se stessi e con gli altri. Tutto questo, che si intreccia con i mutamenti      socioculturali      e     antropologici,      ha    reclamato      il ripensamento degli antichi dispositivi di ascolto e del prendersi cura. I contributi del presente volume, prezioso ancor più perché dà voce ai tanti giovani allievi delle Associazioni SIEFPP, offrono l’occasione di un fertile confronto, a partire dalle cornici stesse individuate per affrontare il malessere per il quale si chiede aiuto.

Ripiegamento malinconico, identità ferite nel proprio narcisismo, dipendenze patologiche, evitamento a tutti i costi del lutto, negazione della separatezza e delle differenze emergono da un contesto sociale e storico che ha prodotto lo smarrimento dei garanti metasociali e metapsichici. Intanto, i disagi della contemporaneità, come ricorda A. De Rosa, relegano l’inconscio in un angolino e ne rendono difficile l’accesso, nel mentre assenza del limite, carenza di progettualità interna e senso di vuoto trovano espressione in nuove forme psicopatologiche che trasformano il paziente in un “paziente difficile da raggiungere”, perché “molto in contatto con la realtà esterna e poco con la propria realtà soggettiva” (De Rosa).

Come ricorda Corrente nel suo contributo al volume, l’ascolto offerto può consentire al terapeuta di intuire, comprendere “all’improvviso” qualcosa del paziente, ancor più che dai sensi, da un precipitato inconscio che irrompe e che ne orienta la conoscenza.

Infatti, prezioso strumento dell’artigiano-terapeuta, l’intuizione si articolerà all’ascolto in modo da rendere possibile il ridare significato alle note apparentemente stonate del discorso del paziente.

Si tratterà, in ogni caso, di ascoltare l’attuale nel quale confluiscono i resti di un passato non pienamente vissuti, che, in attesa di essere accolti e integrati, si insinuano e insistono nel presente sotto nuova forma: l’attuale soggettivo, costantemente aperto all’alterità. “Proprio a questo attuale, che viene da un passato non vissuto, e che insiste nel Presente, l’orecchio psicoanalitico dovrà ben allenarsi” (Trapanese).

L’Io del soggetto, reso fragile dalla propria ferita narcisistica, incapace di rappresentare simbolicamente la propria realtà psichica, di sognare, di associare e di pensare, si difende dal crollo e dal vuoto investendo il confine di una chiusura auto conservativa (Castriota), che lo mette al riparo dall’angoscia della perdita di punti e sistemi di riferimento stabili.

Se nuove domande di aiuto esigono nuove risposte, ecco che viene invocata un’estensione dell’ascolto, “che dovrà misurarsi con un campo nuovo e più esteso, si soffermerà specificamente su quegli spazi di realtà psichica inconscia” (Trapanese) e che dovrà esigere un’estensione della tecnica stessa e quindi dell’ascolto.

Molti dei contributi offerti nel volume costituiscono la giusta occasione per ripensare all’ascolto come costrutto, strumento e spazio che permetta il dispiegarsi del processo di cura del paziente nel lavoro clinico. “Cura” deriva dal latino cura, che, a sua volta, è il derivato della radice ku-/kav- che significa osservare: osservare, dunque, e ascoltare. I sensi che si attivano diventano idonei a ricevere, e così ad accogliere l’altro. L’ascolto si dimostra, infatti, inscindibile dall’osservazione, in un rapporto circolare che coinvolge tutti gli altri sensi.

La cura, intesa nella sua accezione del “prendersi cura”, si rivela così capace di accogliere l’altro nei suoi aspetti più profondi, di facilitare la relazione attraverso un ascolto non giudicante, che punti a comprendere gli affetti e i bisogni, attraverso lo sviluppo di una capacità empatica che fa sì che il terapeuta provi ciò che il paziente prova, senta non solo al suo posto, ma finanche nella sua pelle.

Viene, intanto, a più riprese sottolineata la valenza trasformativa delle psicoterapie psicoanaliticamente orientate che hanno dimostrato la superiorità in termini di efficacia rispetto alle terapie cognitivo- comportamentali (M. Biondi).

Nella introduzione della prima sessione clinica, P. Cruciani bene evidenzia come l’ascolto vada concepito “come elemento che caratterizza il processo psicoanalitico, come mezzo di conoscenza e di intervento trasformativo terapeutico”. Pensato come un’operazione attiva, l’ascolto psicoanalitico si pone come “una disposizione a ricevere, a compiere una soluzione e un collegamento con l’esperienza complessiva”.

Da vari contributi, emerge con maggiore chiarezza che la sintonizzazione del terapeuta attiva un ascolto con tutti i sensi, un ascolto in cui il terapeuta acquisisca la capacità di potersi smarrire, di perdere temporaneamente le proprie certezze, i propri punti di ancoraggio al fine di incontrare il paziente, esattamente nel luogo e nel tempo in cui si è fermato. Il tema dell’ascolto psicoanalitico viene pertanto ampiamente esaminato da contributi clinico-teorici che sono stati distribuiti nelle tre Sessioni Cliniche pomeridiane, seguendo le seguenti tracce: 1) Ascoltare il silenzio: quando è il corpo che parla; 2) Ascolto dell’ascolto e pluralità dei contesti; 3) L’ascolto polifonico nella stanza di psicoterapia.

  1. A. Fenu, G. Ballarotto ed E. Marzilli, hanno bene messo in evidenza la specificità dell’ascolto psicoanaliticamente orientato, sostenuto dall’empatia, dalla condivisione di affetti, sentimenti ed emozioni. Per questo, il lavoro formativo dell’ascolto di se stessi promosso dalle Scuole di Psicoterapia SIEFPP ha un ruolo determinante nella qualità e durata degli esiti della clinica esercitata da Psicoterapeuti ben formati.

Con la seconda sessione clinica, “Ascolto dell’ascolto e pluralità dei contesti”, si vedono affrontati diversi temi che emergono all’interno di Istituzioni pubbliche dal lavoro psicoanaliticamente orientato. In queste, protagonisti sono anche giovani operatori in formazione, che si ritrovano accompagnati e sostenuti nel delicato percorso di costruzione della propria identità di psicoterapeuti. Alcuni contributi, intanto, mettono in luce quanto possa essere difficile attivare un processo psicoterapeutico allorchè l’Istituzione, rivelandosi matrigna e non madre, non sarà in grado di sostenere gli operatori che spesso si ritrovano soli e senza risorse. Lo spazio di supervisione, che viene all’uopo attivato, si offre, allora, come necessario spazio per ripensare all’ ascolto offerto e al modo stesso con cui il paziente ha ascoltato quanto gli è stato detto in terapia (ascolto dell’ascolto). L’ascolto dei propri vissuti da parte degli operatori e dell’ “ascolto dell’ascolto” del paziente, costituiscono, pertanto, parte essenziale del processo formativo di cui si fanno carico le Scuole che afferiscono alla SIEFPP. Se il tema della cura è costantemente presente in tutti i contributi, in alcuni (come quello delle dottoresse Burzio e Iorio) l’ascolto pur diversamente declinato all’interno di setting diversi (individuale e di coppia), conduce ugualmente alla scoperta di “materia psichica” che si trasmette attraverso le generazioni (“oggetti transgenerazionali”).

Con l “Ascolto polifonico nella stanza in psicoterapia”, viene affrontato più puntualmente l’ascolto della dinamica transfero–controtransferale.

1) Ascoltare il silenzio: quando è il corpo che parla; 2) Ascolto dell’ascolto e pluralità dei contesti; 3)L’ascolto polifonico nella stanza di psicoterapia: sono queste le tracce che il lettore è invitato a seguire.

Nel contributo “Ascoltare il silenzio: quando è il corpo che parla” le situazioni cliniche presentate, pur diverse tra loro, appaiono accomunate da una particolare qualità di ascolto psicoanalitico, che è l’ascolto  del  silenzio.  Si  mostra,  infatti,  come  da  parte  dello psicoterapeuta l’ascolto si offra come una disposizione a ricevere, a sentire non soltanto le parole, ma quanto passa attraverso il proprio corpo.

L’ascolto, diventa, infatti, ascolto di quello che non si ode, eppure si sente tramite l’attivazione e la disposizione degli altri sensi che colgono, raccolgono e restituiscono accendendo una vitale comunicazione del paziente con se stesso, e del gruppo, della coppia e della famiglia col proprio “interno”.

Attraverso le sue varie declinazioni, l’ascolto psicoanalitico va quindi inteso come “disposizione interna dell’analista ad udire in modalità ricettiva. Un ascolto psicosensoriale, ben espresso dal termine “sentire”, che allude ad una disposizione introspettiva della coppia analitica” (Carlo Passarelli). Da parte dell’analista l’analisi del proprio controtransfert consentirà, dopo averli sperimentati nell’incontro con il paziente, di comprendere e rappresentarsi gli  affetti e  le emozioni,  da mettere  al  servizio di un’interpretazione efficace e vitale.

Non va trascurata la necessità di poter sviluppare quella capacità negativa (Bion, 1970), ossia la capacità di tollerare il dubbio, la confusione e la difficoltà di comprendere, in attesa ci si possa offrire al paziente come oggetto trasformativo (Bollas, 1989).

L’ascolto psicoanalitico che si dispiega nel processo di cura equivale alla capacità di contenere, è in questo senso accostabile alla nozione winnicottiana di holding (Winnicott, 1958), ossia di quella capacità materna di contenere fisicamente ed emozionalmente il proprio bambino da cui deriva l’introiezione e l’interiorizzazione della continuità e del senso di Sé e dell’esistenza, che costituiscono la base sulla quale poggia lo sviluppo dell’autonomia del soggetto, insieme alla la possibilità di sperimentarsi come persona viva e creativa.

L’ascolto che si declina a seconda dei vari setting possibili (individuali per adulti, bambini e adolescenti, di coppia, di famiglia, di gruppo terapeutico e di gruppo istituzionale) svolge in ogni caso quella funzione di pelle psichica capace di contenere e proteggere.

Nel lavoro psicoterapeutico con i bambini, ci ritroviamo a misurarci col gioco. Rievocando il contributo “Udire con gli occhi: l’ascolto multiforme nelle psicoterapie con i bambini e con gli adolescenti e i loro genitori” di Virginia Giannotti, il gioco, se colto nella sua capacità di significare e trasformare l’esperienza, è sempre un gioco di rispecchiamento: il bambino si specchia nello sguardo della madre per avere prova della sua consistenza, della sua integrità e interezza, per non smarrirsi e per poter essere trovato (A. Freud, 1953).

Il gioco di un bambino, così come la narrazione di un paziente molto regredito, reclamerà un ascolto primario che ne permetta la rêverie, onde poter accedere ad un linguaggio creativo e associativo che mobiliti quello unico del paziente, un linguaggio che non sia la mera copia della nostra proposta, ma movimento privato e vitale, volto a trovare soluzione ai problemi evolutivi.

A proposito dell’ascolto dell’adolescente all’interno della sua famiglia si creano le condizioni per poter cogliere i primi segni di un prevedibile breack-down. Un intervento precoce potrà allora evitare che vengano compromesse la stabilità, la prevedibilità, la continuità e l’integrazione del Sé, che minaccerebbero i processi di identificazione e di crescita. La lettura del contributo di S. Taccani “L’ascolto di coppie e famiglie con tutti i suoi sensi”, chiarisce quanto sia proprio l’analisi dei legami a permettere   di                   “riconoscere         e   sciogliere    nodi,   aprire   conflitti,    disarticolare ingranaggi  e  incastri”  e  a  offrire,  dunque,  quell’ascolto  in  grado  di restituire a coppie e famiglie la possibilità di dialogare con le proprie storie e ricostruirle.

Si comprende dai tanti contributi quanto l’ascolto analitico sia una capacità che si può sviluppare solo nel corso di un training articolato che prevede un’analisi personale, strumento indispensabile perché si possano affinare i propri organi di senso, al fine di riuscire a sentire attraverso il controtransfert gli elementi primitivi della comunicazione dei pazienti anche gravi e quanto all’interno della relazione analitica “scorre in profondità come un fiume sotterraneo”, trovando la sua “espressione in aspetti vocali o ritmici della verbalizzazione, e perfino, a livelli extra verbali corporei” (Maiello, 2011).

Proprio come suggerito dal contributo di Stefano Bolognini, risulterà evidente come l’analista abbia da affinare i suoi sensi per poter sentire i differenti livelli che si attivano nello spazio della coppia analitica, all’interno di un ascolto, quindi, che non tenda alla mera interpretazione, ma che si disponga empaticamente ad accogliere il paziente nella sua intimità più profonda.

L’ascolto clinico diventa così un “gioco interattivo”, perché consente al terapeuta di contenere, comprendere e tradurre le comunicazioni del paziente, all’interno di un setting che si configura come contenitore e binario e che rende possibile proprio la costruzione di questo ascolto.

Per concludere, l’immagine offertaci da Masud Khan di “campo lasciato a maggese” (Khan, I Sé nascosti, 1983) sembra offrirsi al fine di rimandare proprio ad una funzione che può essere attribuita all’ascolto che, all’interno dei vari diversificati setting, convoca tutti i sensi, che opera in tutte le direzioni dell’incontro col paziente, che funge da spazio transizionale dell’esperienza terapeutica, che lascia la mente come un campo a maggese, in attesa che tornino a circolare pensieri nuovi e creativi.

In nome dell’ascolto che dovrà sempre essere, oltre che rispettoso, anche responsabile, M.A. Fenu chiude il volume con una postfazione in cui con orgoglio di Presidente ricorda che in solidarietà con le Istituzioni che combattevano l’emergenza italiana Covid 19, la SIEFPP ha firmato una convenzione con il Ministero della Salute per far fronte all’emergenza pandemica, attraverso i 400 psicoterapeuti professionisti messi al servizio di un numero verde di un servizio gratuito di ascolto psicoanalitico, di consulenza e sostegno.

L’impresa promossa, “dal risvolto senza precedenti per la professione e la deontologia psicoanalitica”(Fenu), trova in questo ricco Volume la testimonianza della centralità nella cura dell’ ascolto psicoanalitico da conquistare solo attraverso il rigore di precisi e articolati processi formativi.

Federica Carpino

ALESSANDRA CHINAGLIA CORNOLDI
L’Autore, conosciuto da me attraverso la lettura de l’”International Forum of Psychoanalysis”, quando era ancora cartacea, poi diventato Direttore della stessa rivista online, che insieme alla Int. J. Psycho-Anal. è tra le riviste più prestigiose al mondo, ha scritto un’opera sulla storia della psicoanalisi che, secondo me, è il più bel trattato di psicoanalisi degli ultimi anni. Il volume è di 721 pagine e si leggono tutte di un fiato.

Insieme ad esso ultimamente mi aveva colpito un altro lavoro di Clara Mucci dal titolo “Beyond individual and collective trauma – Intergenerational Transmission, Psychoanalytic Treatment, and the Dynamics of Forgiveness”.
Karnac Books Ltd, London, 2013.

Non a caso i due Autori, italiani di nascita, si sono formati anche negli Stati Uniti.

Di come tutta l’opera di Marco Conci si snoda parlerò in seguito. Le pagine che più mi hanno colpita e che si trovano nel capitolo “Afterword – Why and how I became a psychoanalyst” (pag. 609 a pag. 701), sono tra le più originali che abbia letto dopo le opere complete di Sigmund Freud, quando lo scopritore dell’inconscio, a Vienna, per dimostrare la scientificità della sua scoperta, non ebbe timore di parlare della sua vita personale più intima e quotidiana.
“Sono nato a Trento, in Italia, nella primavera del 1955, Trento con Bolzano e Trieste diventarono italiane solo alla fine della Prima Guerra mondiale nel novembre del 1918. Due eroi locali giocarono un ruolo molto significativo negli eventi storici attraverso cui la nostra regione, Trentino Alto Adige – Südtirol in tedesco), fu annessa all’Italia e attraverso cui, dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli fu concesso uno statuto come regione a amministrazione autonoma. I due eroi furono Cesare Battisti (1875- 1916) e Alcide De Gasperi (1881-1954). Mio padre li stimava moltissimo e passò a me queste virtù e inclinazioni che emergeranno nel corso di questo mio scritto. Battisti e De Gasperi erano bilingui e avevano studiato in Austria e in Italia (…)”. L’autore racconta come egli crebbe in un clima in cui la famiglia aveva sentimenti italiani e che il padre ingegnere fu il costruttore di tutte le strutture olimpioniche per le Olimpiadi di Cortina del 1956.

Racconta quanto il padre avrebbe desiderato che seguisse la sua professione, e quanto egli si sentisse distante da questo mondo. Voleva studiare Medicina e riuscì a laurearsi studiando prima a Bologna poi a Firenze. È interessante l’intreccio che Conci riesce a fare dei luoghi che Sigmund Freud con la sua famiglia d’estate frequentava, vale a dire Longarone, amando molto l’Italia e come si evince dai suoi racconti di viaggio, anche da solo, conobbe Venezia, Trieste, Roma e qui si ispirò per i suoi scritti più geniali. Nel mio studio c’è una fotografia di Freud al Des Bains del Lido di Venezia che, con degli amici, si gode il sole, rilassato su una sedia sdraio, come Dirk Bogarth nella sua mirabile interpretazione de “La morte a Venezia” di Thomas Mann, per i critici il film più bello di Luchino Visconti.

Marco Conci ci racconta la svolta della sua vita: l’aver fatto la terza Liceo negli Stati Uniti, a nord di New York, ospite di una famiglia di ebrei intellettuali. “Come potete immaginare fui molto felice di lasciare la mia famiglia. Ero membro della AFS- Italy chiamata Intercultura, per la quale anche mia sorella Anna passò un anno in Germania. Comunque frequentai la Mamaroneck High School, nel New York State, ma molto più importante della scuola fu la famiglia in cui vissi. Abitavamo a Larchmont, N.Y., a mezzora dalla stazione principale della città. La culture ad cui provenivo era gerarchica e conservatrice e non avevo mai avuto esperienza di feste in famiglia in cui ci fossero vecchi e giovani insieme a parlare e discutere. Io ricordo il mio “American father” chiedermi le mie idee e sentimenti con una curiosità che mio padre non aveva mai avuto. Io per altro non avevo mai incontrato un ebreo a Trento dove vigeva la leggenda di San Simonino, patrono della Cattedrale, che era stato santificato in quanto trucidato dagli ebrei per farne del suo sangue le azzime di Pasqua, considerato in tutta l’Europa dell’Est il crimine più efferato degli ebrei. Invece io trovai una famiglia inaspettata per me, molto molto democratica e molto felice di reali scambi culturali. Ciò che è sicuro che per la prima volta io mi sentii persona quando mi si chiedeva il mio parare, così la mia “American identity” mi fece diventare una persona felice, capace di usare la parola happy, e di sentire le emozioni come un qualcosa di positivo.”

Personalmente ho trovato questo passo coraggioso e delicato; pochi analisti hanno avuto il coraggio di scrivere profondamente il loro vissuto sulla prima volta in cui si sono sentiti “persona”. Freud lo scrisse molte volte.

Volendo presentare l’opera in toto preceduta da una interessante prefazione di Stefano Bolognini (Past President IPA), essa si snoda attraverso un’introduzione che parla di Freud e della sua corrispondenza anche come giovane medico nelle sue lettere a Eduard Silberstein, sul perché Freud scelse la facoltà di Medicina e sulla sua Self- Analysis.
L’introduzione della parte seconda è segnata dalle figure di H.S. Sullivan e S.A. Mitchell: un interessante capitolo, il IV, parla di Sullivan rivisitato in una originale versione in cui l’autore viene chiamato al White Institute di New York per approfondire la figura di Sullivan che con Fromm-Reichmann e Fromm, Heinz Hartmann, Melanie Klein e Jacques Lacan fu tradotto in Italia già negli anni 60. Il focus del suo lavoro è quello della prospettiva inter-soggettiva.

Conci si sofferma su S.A. Mitchell (1946-2000) in Italia con una corrispondenza di lettere inedite tra Mitchell e l’autore.
Nell’introduzione alla parte III dal titolo “Le radici molteplici del lavoro di W. R. Bion e del concetto di campo analitico, l’autore rivisita il concetto della “Psicoanalisi Comparativa. Nel settimo capitolo si ritrova Bion e il suo primo analista, John Rickmann (1891-1951), e la rivisitazione della loro relazione alla luce della personalità di Rickman e la produzione scientifica delle lettere di Bion al suo analista. Nel capitolo ottavo dedicato a Bion e Sullivan si mette a fuoco il loro illuminante confronto: la teoria interpersonale della Psichiatria in Sullivan, e imparare dall’esperienza di Bion. Segue il capitolo della teoria del campo analitico, un approccio dialogico, una prospettiva pluralistica e un tentativo di una nuova definizione di quella che è conosciuta da tutti come “Analytica Field Theory”.
Tutte queste teorizzazioni sono molto illuminanti sugli intrecci variegati del mondo analitico attuale e sulla nascita di tali teorie. Lo stile storicistico e narrativo è avvincente e non si perde mai la tensione che questa scrittura mirabile dell’autore multilingue lascia nel lettore. Si entra nel mondo degli analisti descritti sentendosi in rapporto stretto con loro e la nostra storia, nazionale e internazionale, personale e professionale.

L’introduzione alla parte IV ci porta sempre alla psicoanalisi internazionale ma con un focus sull’Italia e sulla Germania: Gaetano Benedetti, Johannes Cremerius e l’International Federation of Psychoanalytic Societies (IFPS) e l’associazione di Studi Psicoanalitici di Milano (ASP), nonché la prima Scuola di Psicoterapia Psicoanalitica (SPP) di Milano. Molto interessante la descrizione di Gaetano Benedetti attraverso il suo lavoro autobiografico Selbstdarstellung che fu pubblicato in Germania nel 1994. Benedetti crebbe a Catania ma poi si spostò a Zurigo per specializzarsi in psichiatria con Manfred Bleuler, figlio di Eugen (1857-1939). L’autore racconta come l’incontro con Benedetti fu un grandissimo dono della sua vita, infatti la New York University Press nel 1987 pubblicò il suo famoso libro “Psychotheraphy of schizophrenia”. Benedetti insegnò in Bale, a Zurigo (1959), a Losanna (1964), Turku (1971), Oslo (1975), Losanna (1978), Heidelberg (1971), Yale (1985), Torino (1988), Stoccolma (1991). Pubblicò la rivista “Psychosis: Psychological, Social and Integrative Approaches” e organizzò un simposio alla fine dell’agosto 2013 in Varsavia sotto la leadership dello psicanalista e psichiatra Brian Martindale, primo Presidente dell’EFPP (European Federation of Psychoanalytic Psychoteraphy.
Interessanti i capitoli 11 e 12 dove Marco Conci intervista Stefano Bolognini e Horst Kächele.

Invito caldamente a leggere questo libro che più di ogni altro mi ha insegnato strade nuove, presenti e passate, e mi ha entusiasmata per la scrittura da “novelist” dell’autore.

Alessandra Chinaglia Cornoldi – San Marco, 3536 – 30124 Venezia.
Psicoterapeuta con formazione psicoanalitica (SIPP)
Adult Delegate SIEFPP per la EFPP

L’Autore, conosciuto da me attraverso la lettura de l’”International Forum of Psychoanalysis”, quando era ancora cartacea, poi diventato Direttore della stessa rivista online, che insieme alla Int. J. Psycho-Anal. è tra le riviste più prestigiose al mondo, ha scritto un’opera sulla storia della psicoanalisi che, secondo me, è il più bel trattato di psicoanalisi degli ultimi anni. Il volume è di 721 pagine e si leggono tutte di un fiato.

Insieme ad esso ultimamente mi aveva colpito un altro lavoro di Clara Mucci dal titolo “Beyond individual and collective trauma – Intergenerational Transmission, Psychoanalytic Treatment, and the Dynamics of Forgiveness”.
Karnac Books Ltd, London, 2013.

Non a caso i due Autori, italiani di nascita, si sono formati anche negli Stati Uniti.
Di come tutta l’opera di Marco Conci si snoda parlerò in seguito. Le pagine che più mi hanno colpita e che si trovano nel capitolo “Afterword – Why and how I became a psychoanalyst” (pag. 609 a pag. 701), sono tra le più originali che abbia letto dopo le opere complete di Sigmund Freud, quando lo scopritore dell’inconscio, a Vienna, per dimostrare la scientificità della sua scoperta, non ebbe timore di parlare della sua vita personale più intima e quotidiana.
“Sono nato a Trento, in Italia, nella primavera del 1955, Trento con Bolzano e Trieste diventarono italiane solo alla fine della Prima Guerra mondiale nel novembre del 1918. Due eroi locali giocarono un ruolo molto significativo negli eventi storici attraverso cui la nostra regione, Trentino Alto Adige – Südtirol in tedesco), fu annessa all’Italia e attraverso cui, dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli fu concesso uno statuto come regione a amministrazione autonoma. I due eroi furono Cesare Battisti (1875- 1916) e Alcide De Gasperi (1881-1954). Mio padre li stimava moltissimo e passò a me queste virtù e inclinazioni che emergeranno nel corso di questo mio scritto. Battisti e De Gasperi erano bilingui e avevano studiato in Austria e in Italia (…)”. L’autore racconta come egli crebbe in un clima in cui la famiglia aveva sentimenti italiani e che il padre ingegnere fu il costruttore di tutte le strutture olimpioniche per le Olimpiadi di Cortina del 1956.

Racconta quanto il padre avrebbe desiderato che seguisse la sua professione, e quanto egli si sentisse distante da questo mondo. Voleva studiare Medicina e riuscì a laurearsi studiando prima a Bologna poi a Firenze. È interessante l’intreccio che Conci riesce a fare dei luoghi che Sigmund Freud con la sua famiglia d’estate frequentava, vale a dire Longarone, amando molto l’Italia e come si evince dai suoi racconti di viaggio, anche da solo, conobbe Venezia, Trieste, Roma e qui si ispirò per i suoi scritti più geniali. Nel mio studio c’è una fotografia di Freud al Des Bains del Lido di Venezia che, con degli amici, si gode il sole, rilassato su una sedia sdraio, come Dirk Bogarth nella sua mirabile interpretazione de “La morte a Venezia” di Thomas Mann, per i critici il film più bello di Luchino Visconti.

Marco Conci ci racconta la svolta della sua vita: l’aver fatto la terza Liceo negli Stati Uniti, a nord di New York, ospite di una famiglia di ebrei intellettuali. “Come potete immaginare fui molto felice di lasciare la mia famiglia. Ero membro della AFS- Italy chiamata Intercultura, per la quale anche mia sorella Anna passò un anno in Germania. Comunque frequentai la Mamaroneck High School, nel New York State, ma molto più importante della scuola fu la famiglia in cui vissi. Abitavamo a Larchmont, N.Y., a mezzora dalla stazione principale della città. La culture ad cui provenivo era gerarchica e conservatrice e non avevo mai avuto esperienza di feste in famiglia in cui ci fossero vecchi e giovani insieme a parlare e discutere. Io ricordo il mio “American father” chiedermi le mie idee e sentimenti con una curiosità che mio padre non aveva mai avuto. Io per altro non avevo mai incontrato un ebreo a Trento dove vigeva la leggenda di San Simonino, patrono della Cattedrale, che era stato santificato in quanto trucidato dagli ebrei per farne del suo sangue le azzime di Pasqua, considerato in tutta l’Europa dell’Est il crimine più efferato degli ebrei. Invece io trovai una famiglia inaspettata per me, molto molto democratica e molto felice di reali scambi culturali. Ciò che è sicuro che per la prima volta io mi sentii persona quando mi si chiedeva il mio parare, così la mia “American identity” mi fece diventare una persona felice, capace di usare la parola happy, e di sentire le emozioni come un qualcosa di positivo.”
Personalmente ho trovato questo passo coraggioso e delicato; pochi analisti hanno avuto il coraggio di scrivere profondamente il loro vissuto sulla prima volta in cui si sono sentiti “persona”. Freud lo scrisse molte volte.

Volendo presentare l’opera in toto preceduta da una interessante prefazione di Stefano Bolognini (Past President IPA), essa si snoda attraverso un’introduzione che parla di Freud e della sua corrispondenza anche come giovane medico nelle sue lettere a Eduard Silberstein, sul perché Freud scelse la facoltà di Medicina e sulla sua Self- Analysis.
L’introduzione della parte seconda è segnata dalle figure di H.S. Sullivan e S.A. Mitchell: un interessante capitolo, il IV, parla di Sullivan rivisitato in una originale versione in cui l’autore viene chiamato al White Institute di New York per approfondire la figura di Sullivan che con Fromm-Reichmann e Fromm, Heinz Hartmann, Melanie Klein e Jacques Lacan fu tradotto in Italia già negli anni 60. Il focus del suo lavoro è quello della prospettiva inter-soggettiva.
Conci si sofferma su S.A. Mitchell (1946-2000) in Italia con una corrispondenza di lettere inedite tra Mitchell e l’autore.

Nell’introduzione alla parte III dal titolo “Le radici molteplici del lavoro di W. R. Bion e del concetto di campo analitico, l’autore rivisita il concetto della “Psicoanalisi Comparativa. Nel settimo capitolo si ritrova Bion e il suo primo analista, John Rickmann (1891-1951), e la rivisitazione della loro relazione alla luce della personalità di Rickman e la produzione scientifica delle lettere di Bion al suo analista. Nel capitolo ottavo dedicato a Bion e Sullivan si mette a fuoco il loro illuminante confronto: la teoria interpersonale della Psichiatria in Sullivan, e imparare dall’esperienza di Bion. Segue il capitolo della teoria del campo analitico, un approccio dialogico, una prospettiva pluralistica e un tentativo di una nuova definizione di quella che è conosciuta da tutti come “Analytica Field Theory”.

Tutte queste teorizzazioni sono molto illuminanti sugli intrecci variegati del mondo analitico attuale e sulla nascita di tali teorie. Lo stile storicistico e narrativo è avvincente e non si perde mai la tensione che questa scrittura mirabile dell’autore multilingue lascia nel lettore. Si entra nel mondo degli analisti descritti sentendosi in rapporto stretto con loro e la nostra storia, nazionale e internazionale, personale e professionale.

L’introduzione alla parte IV ci porta sempre alla psicoanalisi internazionale ma con un focus sull’Italia e sulla Germania: Gaetano Benedetti, Johannes Cremerius e l’International Federation of Psychoanalytic Societies (IFPS) e l’associazione di Studi Psicoanalitici di Milano (ASP), nonché la prima Scuola di Psicoterapia Psicoanalitica (SPP) di Milano. Molto interessante la descrizione di Gaetano Benedetti attraverso il suo lavoro autobiografico Selbstdarstellung che fu pubblicato in Germania nel 1994. Benedetti crebbe a Catania ma poi si spostò a Zurigo per specializzarsi in psichiatria con Manfred Bleuler, figlio di Eugen (1857-1939). L’autore racconta come l’incontro con Benedetti fu un grandissimo dono della sua vita, infatti la New York University Press nel 1987 pubblicò il suo famoso libro “Psychotheraphy of schizophrenia”. Benedetti insegnò in Bale, a Zurigo (1959), a Losanna (1964), Turku (1971), Oslo (1975), Losanna (1978), Heidelberg (1971), Yale (1985), Torino (1988), Stoccolma (1991). Pubblicò la rivista “Psychosis: Psychological, Social and Integrative Approaches” e organizzò un simposio alla fine dell’agosto 2013 in Varsavia sotto la leadership dello psicanalista e psichiatra Brian Martindale, primo Presidente dell’EFPP (European Federation of Psychoanalytic Psychoteraphy.

Interessanti i capitoli 11 e 12 dove Marco Conci intervista Stefano Bolognini e Horst Kächele.
Invito caldamente a leggere questo libro che più di ogni altro mi ha insegnato strade nuove, presenti e passate, e mi ha entusiasmata per la scrittura da “novelist” dell’autore.

Alessandra Chinaglia Cornoldi – San Marco, 3536 – 30124 Venezia.
Psicoterapeuta con formazione psicoanalitica (SIPP)
Adult Delegate SIEFPP per la EFPP

PREMESSA STORICA

Sono trascorsi trentasette anni dal primo approdo di Andreas Giannakoulas a San Lorenzo, il movimentato quartiere di Roma, dove si trova la: “Neuro Infantile”. Così la facoltà era chiamata un tempo, molto familiarmente, da… tutti noi.

Noi incontrammo Andreas Giannakoulas – Tavistock Clinik di Londra – che eravamo ragazzi “anni settanta”, laureati con lode e ansiosi di incidere nel mondo. Eravamo, forse, dei privilegiati, come scriveva Pasolini (1968) nella sua nota difesa dei giovani appena maggiorenni, che facevano i poliziotti per lavoro. Poi anche lui, come altri prima, fu ucciso. Fu ucciso impietosamente, quella brutta notte del giorno dei morti, in un assurdo novembre che pareva primavera.

In un paese sconvolto dal terrore politico, noi, giovani privilegiati – anche dotati di requisiti, forse -, inseguendo ideali di un mondo migliore che ci pareva di vedere in una certa sinistra, facevamo la nostra rivoluzione in maniera non cruenta. Quella protesta silente e operativa si realizzava nel contesto accademico e ospedaliero di Via dei Sabelli, che dal ristagno culturale di una psichiatria baronale e arretrata, rinasceva proprio allora come luogo vitale di scienza.

La rinascita era dovuta all’impegno imprenditoriale del Neuropsichiatra Infantile più noto d’Italia, Giovanni Bollea, che da sottile cacciatore di talenti invitava nel suo Istituto nomi di spicco internazionale per promuovere un movimento scientifico che puntava all’eccellenza.

Nello stesso luogo, Neuro Infantile, tra ricerca scientifica, riunioni teoriche, e sacrificali esperienze cliniche, un grande uomo, lo psicoanalista Adriano Giannotti, ribaltò l’inerzia romana nella psicologia infantile, osando nuove frontiere. Usava la psicoanalisi intensiva per casi clinici inguaribili, allora ancora considerati di esclusività psichiatrica. Erano gravi patologie di bambini, di adolescenti e di infelici genitori, proposte in trattamento clinico al suo gruppo scelto di allievi che seguiva di persona, riuscendo a corredare di ricchezza clinica e di successi inesplorati prima di allora, la sua nuova, emergente Sezione di Psicoterapia Psicoanalitica dell’Età Evolutiva.

Era il 1975, il cuore dei cosiddetti Anni di piombo. Andreas Giannakoulas, da allora, restò con noi, sempre in volo tra Roma e Londra, oltrepassando con ieratica disinvoltura quanto di inquietante accadeva in Italia, e sempre centrato nel compito a lui richiesto.

Grazie ad un carisma didattico che incantava, – e che incanta – , grazie ai prestigiosi legami Psi di stampo anglosassone, grazie alla sua disponibilità trasmissiva inesauribile, con Andreas Giannakoulas partì, a San Lorenzo, il Primo Corso di Specializzazione di lingua italiana concepito secondo il modello Tavistock, dove si realizzava la trasmissione di un sapere psicoanalitico sulla psicoterapia dell’età evolutiva, che collocò Roma a livello di rilievo scientifico internazionale.

Quel tempo è passato. Arriviamo adesso ai giorni nostri, in cui costumi e fatti sono altri da allora. Le scuole di specializzazione, intanto, sono sostanzialmente inflazionate. Alla metà di gennaio di quest’anno, 2012, ci ritroviamo ancora a San Lorenzo: stesso luogo, stessa aula, ma un conturbante mix di nuove facce giovani e vecchie facce di allora, tra le quali risaltavano anche ingiusti vuoti e dolorose assenze.

Andreas Giannakoulas, ancora una volta seduto al posto d’onore, era iconicamente eguale a se stesso, in apparenza, ma emozionato come mai nell’impegno di presentare – nel vecchio Istituto di Via dei Sabelli, come se il tempo non fosse mai passato -, il suo più recente e meditato scritto, che riassume, dopo una rivisitazione teorica infinita, durata decenni, i riferimenti culturali che lui ha voluto per sé come cardini espressivi, distintivi, della sua più genuina identità professionale.

Tanto amorevole e lungo impegno ci consegna, alla fine, un testo da non perdere.

L’OPERA

La Tradizione Psicoanalitica Britannica Indipendente, titolo speciale, è presto dipanato dalla citazione di Winnicott, psicoanalista, pensatore e scrittore, indiscutibilmente britannico e indiscutibilmente indipendente: «Non è possibile essere originale tranne che sulla base della tradizione» (p.53) A questa affermazione succede l’altra tratta da Eliot (1964), poeta amato sia da Winnicott sia da Bion, e costantemente presente nell’ispirazione più intima del lavoro di Giannakoulas: «Ho già detto che l’esperienza passata, rivissuta nel significato, non è l’esperienza di una vita sola ma di molte generazioni – senza dimenticare qualcosa che probabilmente è del tutto inesprimibile» (p. 23).

Questo in sintesi, il registro del lavoro, un registro del tutto proprio di Giannakoulas, che è presentato come Indipendent Mind da Max Hernàndez, – suo amico a noi familiare per la frequente e stimolante presenza alla Neuro Infantile – , il quale propone un profilo riportato qui di seguito: «I suoi contributi e la sua creatività sono espressione di un personalissimo riferimento interiore dove la solitudine e la capacità di preoccuparsi sono il frutto di una vasta esperienza culturale; la capacity to bee alone» (p. 12).

Il registro di cui parla Hernandez, esistenziale e fondamentalmente etico a mio parere, il winnicottiano saper essere soli in presenza degli altri trasposto anche in ambito scientifico, traspare in tutta l’opera che procede stilisticamente non erigendosi come una serrata impalcatura architettonica, ma scorrendo direi orizzontalmente, in modo molto simile alla formula narrativa del romanzo Le Onde di Woolf (1931). Il testo, vale a dire, si dispiega nella lettura secondo un movimento storico e riflessivo dal ritmo ciclico, ricorrente, denso di pensieri psicoanalitici che si inseguono, si collegano e si sovrappongono. E in questa particolare forma di scrittura, nonostante la formale scansione in nove capitoli, – molti dei quali con un titolo meditato sino a tradire un humus arcaico, da Oracolo di Delfi -, tutto si dipana armoniosamente e progressivamente, via via sempre più estesamente, per raggiungere, alla conclusione, l’evocazione di quell’Inesprimibile che si dona naturalmente alla mente del lettore senza mai forzarla. Questo inesprimibile, già in principio, era stato annunciato dalla parola poetica di Eliot.

Il libro, si intende, è dedicato all’Olimpo di figure mitologiche che hanno animato il mondo della psicoanalisi anglosassone anni trenta-ottanta – e l’essere indipendenti nella tradizione britannica – figure che hanno segnato inconfondibilmente la formazione psicoanalitica di Giannakoulas e di conseguenza anche la nostra, più eclettica, di allievi.

Di piccolo formato, il libro propone la copertina con foto in bianco e nero, scattata da una fotografa “ambulante”, Niki Tipaldoi, che ritrae una giovane madre etnica. La donna, forte di una dignità arcaica, è esile e scalza, ma sta comunque “col suo piede ben piantato in terra”. Da un lato essa armeggia con un bastone nella brace, mentre dall’altro, attraverso una disinvolta torsione del busto, protegge dal fumo il suo bambino, che è seduto solidamente sul fianco della madre, ed è da lei sostenuto con il braccio sinistro, dalla parte del cuore. Soltanto lo sguardo della donna è intento occasionalmente altrove ma il suo corpo ruota naturalmente su se stesso a protezione del piccolo, così da evocare, al di fuori di ogni possibile situazione storicizzabile, l’essenza strutturale, l’idea platonica, della perfetta relazione madre-bambino.

In primis, ne La Tradizione Psicoanalitica Britannica Indipendente, incontriamo insomma una rappresentazione esaustiva del concetto winnicottiano di holding materna.

I TEMI

CONTENITORE, REVÊRIE E HOLDING

Holding, Handling e Object presenting, – vale a dire, il contenimento, il prendersi cura e la presentazione dell’oggetto -, sono i caposaldi per cui il percorso evolutivo del bambino passa dalla dipendenza assoluta alla fase della dipendenza relativa sino al raggiungimento della indipendenza; questo movimento secondo Winnicott si concretizza più o meno felicemente in relazione anche alle condizioni ambientali.

Il concetto di holding, sempre presente nel discorso, è ripetutamente e pazientemente differenziato dal concetto di contenitore-contenuto bioniano con correlata rêverie materna. La madre di Bion, attraverso la rêverie, il fantasticare sul figlio, si immedesima nel bambino senza perdere la propria identità accompagnandolo nella ricerca di significati, mentre la madre di Winnicott nella holding funziona come madre-ambiente, che avvolge corporeamente il figlio segnandone la continuità dell’essere: going on being.

La madre ambiente riguarda gli stati di quiete, mentre la madre-oggetto, – secondo Winnicott – , si riferisce alla madre per come è percepita dal bambino nei suoi momenti di eccitazione. La riunione, nella mente del bambino, delle due madri sperimentate nelle due diverse condizioni – quiete-eccitazione – crea la premessa per l’acquisizione psichica della capacità di preoccuparsi. Questa funzione segna un livello più evoluto di organizzazione del Sé e di relazione oggettuale.

La sequenza citata a inizio paragrafo si è configurata nella fase matura di Winnicott per l’esigenza di teorizzare esaustivamente il meccanismo dell’energia istintuale messa al servizio dell’Io. Coniando una sequenza in chiave ambientale, da abbinare alla prima sequenza da lui concepita – continuità dell’essere, integrazione, relazione oggettuale e realizzazione, che descrive lo sviluppo precoce – , Winnicott ha potuto finalmente approdare a una teoria completa dei processi evolutivi sani e comunque ispirata al principio informatore del suo pensiero: Home is Where We Start From(1867); casa, è da dove abbiamo inizio.

LA RELAZIONE TERAPEUTICA

Il principio citato ha naturalmente una stretta consequenzialità con la impostazione britannica della relazione terapeutica, nella cornice del setting, che Giannakoulas così descrive: «L’accento è sulla reciprocità dell’essere dell’analista che facilita il potenziale dello sperimentare mutativo. Per lo psicoanalista britannico incontrare in maniera profonda il paziente significava recuperare i suoi valori, possibilmente i più antichi, come anche le potenzialità che vanno all’aldilà dell’idioma tradizionale e dell’articolazione linguistica» (p. 58).

Notiamo qui una sottesa polemica di Giannakoulas con lo strutturalismo linguistico e con la scuola psicoanalitica francese legata a Jacques Lacan, che ha influenzato molti Autori riferendo il processo psicoanalitico prevalentemente al Registro Simbolico, al linguaggio. Non è il caso ora di addentrarsi in una analisi approfondita delle affinità e delle diversità tra il concetto di Illusione di Milner e Winnicott, e di Immaginario lacaniano. Ci interessa invece cogliere quanto conti, per la tradizione indipendente, l’intensità e la donatività implicita di una relazione che lavora sulle emozioni transferali e controtransferali così profondamente da arrivare quasi sino alla carne, non solo nel paziente ma anche nell’analista.

Questa cultura di uno stile clinico coinvolgente in chiave profonda, sebbene contenuto nella neutralità analitica, si motiva con l’esperienza vissuta da varie generazioni di psicoanalisti britannici che hanno riveduto la tecnica per prediligere un modo di essere naturale, agile e sempre rispettoso del livello ottimale di sostenibilità del paziente, come ci racconta Giannakoulas di Winnicott: «Spesso la sua reticenza alla verbalizzazione a tutti i costi, la fertilità del silenzio (…) creavano un effetto di sensibilità quasi perduto negli incontri psicoanalitici. L’holding environment, cioè un milieu congeniale, analogo alle cure materne, veniva offerto per permettere al paziente rivelarsi a se stesso» (p.59 ).

LA REGRESSIONE

Entriamo qui nel filone centrale del libro cui è dedicato un intero capitolo ma che ricorre come motivo di fondo in tutto il lavoro: la Regressione Terapeutica. Su di essa il riferimento principale va a Balint (1968) e alla distinzione tra regressione benigna – ove la fiducia nell’altro da parte del paziente sia ingrediente dominante -, oppure regressione maligna, ove il paziente sia ingabbiato nella pretesa tirannica di risarcimento. In ogni caso lo scopo del trattamento facilita la regressione provvisoria del paziente e la sua dipendenza dallo psicoanalista per mettere in condizione il paziente di transitare dal difetto di base, alla condizione trasformativa di un nuovo inizio. Tale spazio potenziale innovativo sarà possibile, secondo il pensiero di Kahn, con due condizioni preliminari: a) l’abbandono dell’atteggiamento paranoico che comporta la rinuncia alla sospettosità; b) l’accettazione senza ansie indebite di un certo livello di depressione.

I giochi non sono intesi qui a esclusiva discrezione della patologia del paziente, come in Klein, ma si vi configura invece l’interscambio costante tra flessibilità ragionata dell’analista e potenzialità evolutiva del paziente. Tale equilibrio paziente-analista può talvolta nei vari Autori assumere proporzioni diverse sino al vertice esasperato dell’ultimo Khan, gravemente ammalato e troppo sofferente. Non senza un sentimento rispettoso ma realistico circa gli errori di cui si è parlato a lungo già prima della sua morte, Giannakoulas pubblica, senza ipocrisie, le due lapidarie pagine di Khan che risuonano come un drammatico testamento privato. Dello scritto, Infanzia, solitudine e follia, di Khan, dunque, – una testimonianza storica da non perdere -, riporto, per conoscenza, le ultime righe: «Spinti dall’ansia, tentiamo erroneamente di ricondurre a un senso questo non senso, ricostruendo i fatti (Winnicott) o le fantasie (Klein) dell’infanzia. Né gli uni né le altre possono aiutarci; il potenziale creativo della follia si ritrae nell’oblio, e l’analizzando non è più folle né solo, ma semplicemente smarrito e abbandonato » (p134,135.).

NON INTEGRAZIONE, INTEGRAZIONE, DISINTEGRAZIONE, DISSOCIAZIONE, TRAUMA

Nell’intento di ritradurre in termini squisitamente pragmatici la potenza quasi biblica di queste parole, possiamo riflettere sulla necessità clinica di rispettare il bisogno dell’analizzando di vivere, in presenza dell’analista, la sua dimensione di privata follia, che non vuol dire psicosi ma stati di pre-integrazione, e di vivere liberamente la segreta solitudine, che non vuol dire isolamento ma tentativo di essere soli in presenza dell’altro; il tutto in funzione e in conseguenza della regressione terapeutica benigna.

È già nella relazione primaria madre-bambino che si configura la condizione per cui la madre deve poter tollerare lo stato di non integrazione del bambino, prima che questi acquisisca stabilmente il senso della continuità dell’essere. Si può parlare di integrazione, dice Winnicott, solo dopo tale continuità; ma se lo stato che chiamiamo integrazione, dopo essere felicemente raggiunto, subisce per qualche ragione un breakdown, allora ci sarà 1’esperienza di disintegrazione, che segna l’ingresso in una area patologica.

La regressione terapeutica alla dipendenza, la regressione che Balint ha chiamato benigna dunque, punta a rintracciare nell’hic et nunc del transfert quegli stati arcaici e preverbali del tempo di una non ancora avvenuta integrazione. Se la holding materna non è stata adeguata o se gli eventi, comprese le esperienze di trauma, non sono commisurati al bisogno attuale soggettivo del piccolo, l’integrazione resta parziale e incompleta. Le parti non integrate diventano allora dissociate perché queste parti non integrate del Sé si smarriscono in qualche zona avulsa dall’insieme in cui avvengono le connessioni del processo evolutivo. Tale smarrimento impedisce al soggetto un processo elaborativo delle parti perdute.

La relazione terapeutica, per i fenomeni di regressione di cui stiamo parlando, comporta delle prove forti dal punto di vista professionale. Scrive Giannakoulas: «Sappiamo che nulla costa di più all’analista che catturare nell’hic et nunc la sostanziale intensità, la presenza quasi carnale e l’immediatezza sensoriale che queste narrazioni includono, ed è precisamente questa vicissitudine così concreta che rende il transfert essenziale» (p. 153).

And all is alwais now, e tutto è sempre ora: è la sintesi ineffabile della poesia di Eliot (op. cit.).

Grazie alla regressione, in qualche fase del lavoro analitico, arriva il momento in cui la dissociazione del paziente si collassa, e da tale cedimento emerge qualche frammento di antica memoria. Progressivamente gli aspetti del Sé che si erano smarriti sono segnalati e comunicati nella stanza di analisi a sé e all’altro. A questo livello, rimarca Giannakoulas, holding e contenimento sono fattori necessari, insieme, per visualizzare gli aspetti più arcaici del transfert e del controtransfert. È possibile allora pensare i veri termini di una relazione originaria sconosciuta all’analista e al paziente stesso grazie a: «una condizione che attende di immergersi in una consapevolezza corporea totale senza cercare la corretta interpretazione, in realtà senza cercare affatto idee, sebbene le interpretazioni possano emergere da questo stato spontaneamente» Milner (1987 p. 299).

QUALCOSA DI PERSONALE, PER FINIRE

Nella presentazione di Via dei Sabelli, Andreas Giannakoulas ha espresso la sua gratitudine nei confronti di Sara, prima paziente della sua vita professionale. Lavorare con lei gli ha insegnato molto, ha detto, e, infatti, di lei ha scritto generosamente nel libro, offrendo osservazioni dalle valenze poetiche addirittura su i movimenti nella sala d’aspetto, al primo appuntamento. L’omaggio a Sara in ogni modo ha segnato un momento di grande pathos nella mattinata sollecitando in me varie memorie di quei tempi lontani.

Di Sara noi parlavamo quando Andrea, – mi si conceda la confidenza – iniziava, negli anni di piombo i seminari romani dedicati al transfert erotico e agli acting in, nella stanza di analisi. Tali questioni appassionavano gli uditori ma allertavano in particolare quelli di noi che già trattavano adolescenti gravi, non solo adulti e bambini. Oltre Sarah, ne La Sibilla Morta, ultimo capitolo del libro, è presente anche Natalie, una paziente romana del tempo in cui Giannakoulas si era ormai trasferito in Italia. Natalie apre, a conclusione del testo, il tema della depressione materna, e Giannakoulas cita in primo luogo La riparazione in funzione della difesa materna organizzata contro la depressione, dove Winnicott, già nel ‘48, aveva rilevato la necessità del bambino piccolo di confrontarsi con l’umore della madre. Tale confronto secondo Winnicott va oltre al compito di evolvere dalla posizione schizo-paranoide per arrivare alla posizione depressiva, – Klein – e riguarda la concezione della madre-ambiente di cui abbiamo parlato.

Una volta immessi in questa area tematica, era d’obbligo arrivare alla Madre Morta di André Green, – psicoanalista niente affatto britannico ma molto francese di adozione -, che ha scritto pensieri memorabili sulle allucinosi e sugli esiti della depressione materna.

Come è ricordato nel libro, Green era di formazione lacaniana ed era stato analizzato da Nacht, psicoanalista a me caro per il suo lavoro sul Masochismo Primario Organico (1938), una concezione di grande interesse la sedimentazione corporea delle esperienze traumatiche precoci, che negli anni è poi divenuta questione assai diffusa nel campo psicoanalitico.

La citazione di Green, dunque, mi ha ricordato che, prima di incontrare Andreas, di Autori francesi ne avevo letti parecchi e, prima ancora che fosse tradotta, avevo anche studiato l’opera monumentale degli Ecrits di Lacan (1932), che avevo visto di persona e anche ascoltato nelle sue conferenze romane. Di lui apprezzavo la geniale Fase dello specchio presentata al Congresso Internazionale di Psicoanalisi di Marienbad nel 1932 e, a torto o a ragione, pensavo francamente che da tale teoria Winnicott avesse tratto ispirazione per il concetto di mirroring materna. In ogni modo, la lettura di tanti testi sacri, era servita per la mia tesi di laurea La relazione primaria nell’infanzia, dove M. Klein, ancora di gran moda negli anni settanta in Inghilterra, era da me presentata in chiave critica per la sua tecnica, che non mi era congeniale.

Quando partì il Primo Corso di Specializzazione alla Neuro Infantile, insomma, avevo le mie idee e gli Autori britannici non erano i miei cavalli di battaglia. Trovai comunque la mamma per la Baby Observation, – metodo Bick – che in Italia era una novità formativa assoluta. Fu la prima Baby del gruppo e fu supervisionata da Giannakoulas, in esclusiva, per un anno intero prima che qualcuno ne trovasse un’altra. Solo ora che la Baby è nota anche in Senegal, capisco di aver avuto un privilegio formativo senza confronti. E non è tutto. Allora ero seguita da Giannakoulas anche individualmente per un adolescente adottivo, trattato a tre sedute. La supervisione durò diversi anni con la conseguente trasmissione di una metodologia clinica di stampo anglosassone che riconosco come assolutamente rigorosa. Fatto sta che l’intensità di quella esperienza è stata forte per entrambe le parti, visto che Andreas, in occasione del suo libro, ricordava ancora come se fosse oggi – in una conversazione privata con me – , i sogni del mio paziente adolescente, adesso più che quarantenne.

Così è un grande maestro: spende tanto di sé che ha ottima memoria. Eppure, nonostante questa profondità di rapporto, qualcosa tra me e lui non era decollata sino a sfociare in amicizia incondizionata o in una collaborazione professionale stretta, come accaduto invece con altri maestri, quali Adriano Giannotti e Arnaldo Novelletto. Qualcosa è rimasto bloccato e ci siamo persi. Solo adesso, ritrovandolo, ho provato a pensare il perché.

La mia affezione verso gli Autori francesi non era condivisa da Andreas, che allora li guardava con cautela. Dal canto mio, l’impegno ideologico di cui parlavo, – che si configurava nell’obiettivo pionieristico di portare la psicoanalisi a pazienti giovani e poveri, creando strutture dedicate nel Servizio Pubblico, come poi è successo – non mi permetteva un plauso incondizionato verso un Principe indiano, psicoanalista a Londra, che lavorava in studio privato con gente del Jet Set.

Confesso che la questione per me era in questi termini, anche se si trattava dell’analista di Andreas.

Oggi la faccenda del Principe non ha più senso naturalmente, e anzi, a fronte di attacchi che hanno debilitato in patria l’immagine anche postuma di Masud Khan, ora guardo al suo rilancio della prima teoria di Freud – del trauma – in termini di Trauma Cumulativo, come a una svolta teorica epocale (Khan 1963). Da un altro canto inoltre Giannakoulas oggi cita abbastanza volentieri Autori di scuola francese come Nacht, Laplanche, Lacan, Ricoeur, Aulagner, Racamier e così via. In oltre trenta anni, insomma, qualcosa è cambiato.

Posso quindi dire a questo punto con una grande leggerezza d’animo che l’ultimo lavoro di Andreas Giannakoulas, presentato alla Neuro Infantile di Via dei Sabelli, si impone a chiunque lavori nel campo come opera di struggente bellezza – scientifica, storica, genealogica, letteraria, affettiva, personale – e che anche tale opera, per usare le parole del poeta, già citate da Andreas: «non è l’esperienza di una vita, ma di molte generazioni» (p. 23).

Così almeno Andreas ha voluto presentare agli uditori dell’aula il suo lavoro, come un libro “condiviso”. In questo pensiero c’è del vero forse, perché quel libro, pieno di selezioni raffinatissime di testi preziosi della psicoanalisi, che rende omaggio a tutti i suoi maestri, raccoglie anche quasi quaranta anni di insegnamenti gruppali e di supervisioni private, seguite ognuna con la dedizione che sappiamo. Si impara dai maestri, si impara dai pazienti e si impara dagli allievi: questo è un modo di sentire personale dove circola realmente la capacità di preoccuparsi … come scritto da Hernandez .

E allora, di fronte all’idea del libro condiviso, anche con noi allievi, ho potuto dentro di me giocare con la fantasia che le divergenze di un tempo, tra me e Andreas, lui le abbia ricordate e le abbia in qualche modo utilizzate. Vale a dire, mi concedo ora il piccolo lusso di fare mia l’ultima citazione del testo, tratta da Marion Milner: «L’essenziale dell’esperienza è quello che noi aggiungiamo a ciò che vediamo; e, senza un contributo da parte nostra, noi non vediamo nulla» (p.203).

Maria Antonietta Fenu

 

 

Bibliografia

  • BALINT M. (1968). Il difetto di base. In: La regressione. Milano: Cortina, 1983.
  • CELESTINI A. (2006). Scemo di guerra. Torino: Einaudi.
  • ELIOT T. S. (1964). Knowledge and experience. In: Four Quartet. London: Faber and Faber, 1976.
  • KHAN M. (1963) Il concetto di trauma cumulativo. In: Lo Spazio privato del Sé. Torino: Boringhieri, 1979.
  • LACAN J. (1932). Ecrits. Paris Editions du Seuil, 1966.
  • MILNER M. (1987). La follia nascosta delle persone sane. Roma: Borla, 1992.
  • MORANTE E. (1974). La storia. Torino: Einaudi.
  • NACHT S. (1938). Le masochisme. R.F.P. X, 2.
  • PASOLINI P. P. (1968). Il PCI ai giovani. In: Scritti Corsari. Milano: Garzanti, 1990.
  • PASOLINI P. P. (1974). Cos’è questo golpe? Io so. In: Scritti Corsari. Milano: Garzanti, 1990.
  • WOOLF V. (1931). Le Onde. Milano: Einaudi, 2006.

 

Lamento di Portnoy, di Philip Roth, ovvero,  quod turget urget,    “Come il popolo ebraico, l’adolescente vive uno   spossessamento della propria identità ed è costretto a un esodo verso una terra promessa ideale, libero dalla dipendenza infantile, ma privo della protezione che tale dipendenza gli dava.” ( G. Pellizzari)

           

Stili e culture

“ Che radar quella donna! Che energia in lei! Che perfezionismo!”…

Di chi sta parlando Alex, il tormentato protagonista di “ Lamento di Portnoy”, scritto da Philip Roth e pubblicato per la prima volta poco più di quaranta anni fa? 

Il titolo, tradotto in italiano, avrebbe in realtà potuto utilizzare i termini più letterali di “ lagnanza”, “ protesta” o meglio ancora di “sfogo”, forse meno idonei alle esigenze editoriali di allora, ma di sicuro più correttamente evocativi dello specifico registro linguistico utilizzato nel testo. Il libro, infatti, è articolato come travolgente e concitato monologo che Alex rigurgita senza soluzione di continuità nella stanza del suo terapeuta, una volta che, divenuto adulto, è inesorabilmente approdato sul lettino dello psicoanalista. Uno sfogo incontrollabile il suo, che lo vede ben distanziato dalla antica condizione dell’ infans – senza capacità di parolae nel quale, essendo oramai infelicemente uomo oltre che arrivato alla più impotente disperazione si accanisce a rievocare ogni dettaglio della prima fanciullezza e poi della esasperata  adolescenza, nell’estremo tentativo di sentirsi per una volta compreso. Stagioni della vita, quelle narrate, che Alex ha vissuto in qualità di figlio non solo nato in territorio americano, ma anche come appartenente a una famiglia ebraica  e pure allevato in ambiente rigorosamente borghese.

 “Mi controllava le addizioni  in cerca di errori; i calzini alla ricerca di buchi; le unghie, il collo, ogni piega o grinza del mio corpo alla ricerca di sporcizia. Mi draga persino i più remoti recessi delle orecchie versandomi acqua ossigenata nella testa. Il liquido frizza e scoppietta come una siringata di gazzosa, portando in superficie, a pezzetti, i depositi nascosti di cerume giallastro, il quale, a quanto pare, mette in pericolo l’udito dell’individuo…”.

Sono le immagini e le sensazioni legate alla memoria della madre che Alex rabbiosamente espelle dipingendo così, con tratti che rendono omaggio alla più esemplare tipologia ossessiva, la sua onnipresente e infaticabile funzione genitoriale. Una madre tesa costantemente alla pulizia, all’ordine, alla ricerca del difetto, alla enunciazione delle norme, al controllo su tutto e tutti, ma in primo luogo, una madre concentrata sul corpo e sulla mente del suo unico figlio maschio che dalla nascita ha votato alla più assoluta perfezione comportamentale e, di conseguenza secondo lei, a grandi e illustri destini. 

Il clima di casa Portnoy, nonostante l’analogo massiccio  investimento narcisistico sul figlio designato è alquanto diverso da quello respirato dal piccolo Jaromil, il protagonista del “ La vita è altrove” di Milan Kundera, l’autore che ha sostanzialmente prodotto, con questo romanzo successivo al più noto “ L’insostenibile leggerezza dell’essere”, un vero trattato in chiave letteraria sulle origini e sulle conseguenze del narcisismo patologico.   

Jaromil, prima ancora di nascere, era vagheggiato nella reverie materna, come un grande scrittore, come un futuro dispensatore di prodotti di alto valore artistico e che avrebbe dovuto librarsi su livelli di superba eccellenza creativa. Tutto ciò per soddisfare l’esigenza materna di risplendere, di edificare una immagine di sé sino a registri di adamantina bellezza intellettuale e  a dimostrazione, per luce riflessa ovviamente, di cosa lei stessa rappresentasse nel mondo e quindi di cosa fosse mai stata in grado di produrre. 

In casa Portnoy, secondo la narrazione di Alex, non circola in alcun modo un così incontaminato e libero spazio di esibizionismo narcisistico. Il tema centrale, nella encomiabile e irreprensibile famiglia borghese dove cresce, è quello del dovere, della fatica, delle ricompense guadagnate passo dopo passo col duro lavoro, col più costante sacrificio e con il più esemplare espletamento dei compiti. Il tratti dominanti della casa, in sintesi, sono quelli del SuperIo  e quello della più pura Analità.  

Alex non riceve mai elogi lusinghieri, generosi incentivi all’autostima o stimoli esaltanti come invece accade  a Jaromil, il quale, proprio in quanto allevato all’insegna del narcisismo grandioso, una volta che è lasciato solo dalla madre nella sala d’aspetto del suo dentista scopre  dolorosamente di dover porre un freno all’eccessivo esibizionismo verbale, quando una paziente adulta, li presente e in preda alla stizza, dice all’infermiera: “ Ma si può far tacere quel bambino, per piacere?!”. 

Lui invece, Alex, ha appreso sin dalla nascita un profondo senso del limite affinandosi precocemente in questa arte di ossequio alle norme, o meglio all’immagine sociale,  grazie all’incubo dello sguardo critico puntato permanentemente su di sé; il suo segreto narcisismo non può mai osare più di tanto o liberarsi impunemente, ma resta nascosto e conflittuale. Lui ha contratto un debito morale, dovuto da sempre, nei confronti di una madre che svolge le sue funzioni accuditive con il massimo dello zelo e che quindi, proprio per questo dettaglio, si colloca in una dimensione assolutamente perfetta. Inoltre, sin dalla prima infanzia, grazie ai rimproveri, alle punizioni e ai vaticini di sventura, – la madre, convinta che sia il miglior metodo educativo, lo minaccia col coltello quando da  piccolo non vuole mangiare -, sviluppa un metafisico e granitico senso di colpa che risulta bene inculcato nella sua coscienza. 

Figlio di una madre di tipo ipervigile, il giovane Alex rappresenta in breve uno di quei personaggi che, come gli analizzandi descritti dalla Mc Dougall ( 1990): “ agiscono come se fossero sottoposti a una legge materna inesorabile, che mette costantemente in questione il loro diritto all’esistenza e all’indipendenza…costoro si vivono come se fossero una estensione narcisistica della madre, si sentono obbligati a completare il suo senso di identità e a provvedere ai suoi bisogni.”. 

Figli molto amati forse e in qualche modo anche troppo curati ma che non hanno diritto a concepire desideri propri, pena la disapprovazione e il disconoscimento secondo la vecchia regola del: “ O con me o contro di me”.

Pulsione, compulsione e Figomania

Nel romanzo di Roth, in un inarrestabile fiume di parole e con tagliente ironia yiddish – per il lettore suona come irresistibile umorismo – Alex Portnoy ricostruisce accoratamente il contesto, la nascita e lo sviluppo di un disturbo che oramai lo ha portato allo stravolgimento morale nonostante l’eccellente prestigio sociale meritevolmente raggiunto nel campo lavorativo. Ora è “Commissario Aggiunto” per le risorse umane della città, in virtù della sua intelligenza, dell’immagine fortemente etica e anche dell’impegno infaticabile, che era forzosamente presente sin dagli anni della scuola: “ Non lo sanno tutti che io sono diventato l’uomo più virtuoso di New York, tutto nobili cause e ideali umanitari? Non sa che mi guadagno da vivere essendo buono?”.

Eppure, nonostante le migliori intenzioni,  nella sua vita c’era e c’è, sempre più manifestamente, qualcosa che assolutamente non va. 

Di famiglia ebraica “ stretta”, come si diceva,  cresciuto in un ambiente dove ciascuno dei genitori non poteva che porsi agli occhi del mondo  se non come perfettamente rispettabile e irreprensibile, Alex, corredato del suo incontaminato passato di figlio maschio prediletto, educato  in una famiglia più che unita e da sempre primo della classe, nonostante tutti questi invidiabili privilegi si trova angosciosamente “ ..travolto da desideri che ripugnano alla mia coscienza e da una coscienza che ripugna ai miei desideri. “, e sviluppa, con l’emergere della pubertà, un problema non solo molto intimo ma anche inconfessabile e inconciliabile con i dettami originari, problema che in termini tecnici rientra nella compulsione sessuale, e che  l’interessato indica in chiave più diretta col suggestivo termine di “ Figomania”

Accade, nel linguaggio, comune che le parole Istinto e Pulsione siano utilizzati come equivalenti. Nei suoi scritti Freud ( 1905) usa scrupolosamente il termine tedesco Trieb, pulsione appunto, –  centrato sull’idea di spinta così come accade in quello italiano derivato dal latino pulsare, battere -, per evidenziare una importante differenza. L’Istinto, Istinct, è qualcosa di innato che riguarda la intera specie, umana e non,  in termini abbastanza generali, come ad esempio l’istinto di sopravvivenza o quello della riproduzione,  mentre la pulsione risulta un concetto limite tra lo psichismo e il somatico in quanto percepita nel corpo e nella mente del singolo soggetto come stato di eccitazione che  spinge in direzione di qualcosa. Tale carica energetica si organizza quindi individuando un oggetto di desiderio e una meta possibilmente idonea al fine di raggiungere il soddisfacimento; in conseguenza del conquistato obiettivo pulsionale nasce l’esperienza di un confortante stato di benessere, vale a dire l’Appagamento. Ottenuto lo scopo, la tensione energetica si scarica sino a scomparire salvo a risorgere quando il bisogno e poi il desiderio si fanno nuovamente avanti. 

Non sempre le cose sono così lineari. Se all’interno di un soggetto si è creato un ingorgo tra rigidità del Superio e aree pulsionali, se il rapporto con i desideri è conflittuale e l’emotività  instabile, gli equilibri interni si perdono e le funzioni mediatrici dell’Io non sono più utili a una gestione equilibrata dell’economia interna .

La compulsione, come vedremo con Alex, è una forza cieca che non si pacifica con il raggiungimento dello scopo prefissato e non approda mai alla benefica esperienza dell’acquietamento, anche se il soggetto ne ha fatto in passato esperienza anche parziale, conservandone una traccia mnestica, o se in qualche modo la sta cercando ancora dentro di sé. La spinta interna preme qui in una direzione che non corrisponde al bisogno profondo del soggetto; un bisogno che rimane sostanzialmente nascosto, incompreso dall’interessato stesso, che non ha mai imparato a conoscersi. Così, quando il soggetto persegue un obiettivo illusorio, collocato sul registro dell’Immaginario ( Lacan 1964), non gli è mai possibile arrivare a un valido sollievo e all’ appagamento anelato, ma solo a una aleatoria scarica temporanea. 

Nella insoddisfazione permanente che deriva da tale fraintendimento interiore, il desiderio si riproduce infinite volte e si articola in forma di ossessione senza poter essere più governato dalla volontà e dalla coscienza. 

Per citare situazioni abbastanza chiare basti pensare alla cleptomania, in seguito alla quale alcuni individui sono indotti a rubare oggetti che non sono loro affatto necessari e senza che alla base vi siano neppure condizioni di indigenza; a certe forme patologiche come la ritualizzazione ossessiva della pulizia, in cui si è obbligati a lustrare e lavare sempre anche dove non c’è sporcizia, pena una angoscia inaffrontabile, o la bulimia in seguito alla quale alcune persone si ingozzano di cibo a qualsiasi ora del giorno e della notte senza neppure aver fame. Ancora più banalmente possiamo considerare la compulsione agli acquisti, per cui alcuni individui – i cosiddetti serial shopping – non possono fare a meno, esattamente come i giocatori col gioco d’azzardo e i tossicomani con la droga, di comprare. Qualsiasi cosa solleciti l’immaginario del soggetto. 

Il pubertario: quando … quod urget turget

Per tornare al nostro Alex, dopo una fanciullezza da bambino modello arriva anche per lui il momento dello sviluppo puberale. In quella età, come noto,  il corpo sperimenta un nuovo genere di spinta in seguito allo sviluppo ormonale. L’adolescens si trova a fronteggiare pulsioni sconosciute rispetto a quelle semplici nella fase precedente come ad esempio la fame, ed è indotto a sondare, per vie sperimentali e immature, il funzionamento corporeo che ha assunto caratteristiche sessuate. E’ di solito per caso che saprà concretamente, muovendosi per tentativi ed errori, di un potenziale godimento, quello orgasmico ( Roussillon, 1997),  sino ad allora non conosciuto e neppure prefigurato. 

Per quanto correttamente sia stata curata una buona educazione sessuale, eventualmente con pittoresche metafore sul modo in cui nascono i bambini, è raro che i genitori delle famiglie anche più avvedute trovino un modo naturale, semplice,  di addentrarsi in particolari sostanziali come l’esperienza orgasmica, di cui forse sono un po’ vergognosi di fronte ai figli. Eppure nella sessualità, di sicuro, tale ingrediente, c’entra. Così, quando un ragazzo o una ragazza entra in fase puberale e affronta l’inizio dell’adolescenza, non sa in sostanza nulla di certo del funzionamento più intimo e intenso del suo corpo. Finisce prima o poi per doverlo scoprire da solo. 

E quanto accade ad Alex nel momento del cambiamento pubertario che, come sottolinea P. Gutton ( 2008),  non è esattamente una metamorfosi come scrisse Freud nel 1905, ma una fase di totale innovazione e invenzione, da intendersi come un vero e proprio  “Inizio”. 

La genitalità pubertaria avvia la sua rivoluzione contro la sessualità infantile e la relativa onnipotenza delle fantasie, creando un doppio movimento: il corpo supera i limiti precedenti e acquisisce competenze superiori con la capacità di dare la vita e di dare la morte mentre il pensiero, ampliandosi, deve gradualmente approdare a livelli più complessi con un funzionamento di tipo preadulto;  cioè confrontarsi con questioni come la differenza tra le generazioni, la ineluttabilità della morte, il divieto all’incesto e l’esame di realtà. ( Ladame, Catipovic, 2000)

Alex, allertato in famiglia contro i mille pericoli che minacciano il corpo e la salute, scopre la masturbazione e i poteri entusiasmanti del proprio genitale maschile che finalmente gli consente di misurarsi con stati di inesplorata  eccitazione. A partire questo punto, accecato dalle pulsioni, si lascia prendere da un vortice di sfide sempre più peccaminose nei confronti delle anguste tradizioni familiari.  

Lui che aveva vissuto il più rigido divieto di  contaminarsi con semplici piatti non kasher, e con tutto quanto si discosta dalla cultura ebraica, scopre  la trasgressione in tutta la sua varietà e tempestosità in una esperienza che dentro di lui cozza e contemporaneamente si intreccia  con la dominante anale dello stile della casa.   

Quell’onesto e timorato uomo che e’ il padre, assicuratore convinto ma  modestamente valorizzato nell’ambiente di lavoro, passa la vita a combattere lamentosamente la sua cronica stitichezza con prugne, crusca e sedute interminabili nel bagno, uno spazio da lui istituzionalmente monopolizzato. Così, non a caso, le compulsive masturbazioni di Alex si scatenano principalmente nei bagni e in quel bagno prediletto dal padre, non solo in momenti segreti, ma provocatoriamente  anche durante in pasti amorevolmente e perfettamente preparati dalla madre, utilizzando per le sue improbabili fughe dalla tavola la giustificazione incontrobattibile di incontenibili diarree. 

Il padre, esasperato, protesta di fronte a tale occupazione abusiva che lo spodesta irriguardosamente del suo regno, – il figlio, per chiudersi in bagno, millanta un problema che è esattamente l’opposto del suo -,  mentre la madre si affanna dietro la porta, che ingiunge di aprire, e insiste a interrogarlo su eventuali perniciose assunzioni di cibi proibiti – hamburger, maionese, crostini di fegato, tonno, krapfen, insomma tutte le note “sozzerie” non ebraiche – che assolutamente secondo lei… uccidono. La sua richiesta perentoria è di esaminare personalmente le feci del figlio, procedura indispensabile a mettere in risalto la sua dominante competenza genitoriale e a dare una valutazione risolutiva del problema, una volta per tutte. 

Non passa neppure lontanamente, nella mente di questi sprovveduti genitori, il pensiero, ovvio, che il corpo del figlio sia in fase trasformazione e di rinnovamento adolescenziale, e che la loro presenza potrebbe avere una sensibilità nuova in tal senso. Non sono pronti al nuovo, ma si muovono sul piano della negazione di esso.

La dinamica circolare, madre-padre-figlio adolescente di fronte alla porta del bagno – quando il puberale reclama l’identificazione di ordine genitale-libidico con il genitore del proprio sesso per una rivisitazione dell’Edipo in cui il padre dovrebbe rappresentare la funzione normativa  sulla gestione del desiderio, invece di porsi come l’elemento secondarizzato della madre, la quale invece impone una sua priorità invasiva sul corpo del figlio -, è dunque orchestrata da Alex il cui inconscio “ interroga” (Gutton, 2008) l’esperienza infantile, senza sapersene discostare evolutivamente ma secondo un gioco che cela ed espone contemporaneamente segnali del cambiamento. Un fattore psicofisico rispetto al quale lui non è sostenuto né indotto ad avere alcuna fiducia da parte delle due figure genitoriali, come sarebbe invece necessario  in ambito familiare ( Gutton, 2008) per un più solido percorso pubertario. 

L’unica certezza che ha conquistato, ora, è il suo pene. E’ l’unica cosa al mondo che può considerare, senza ombra di dubbio, sua.  

Sessualità e analità, eccitazione e colpa nel suo specifico percorso  si alternano sino a scatenare in Alex Portnoy improbabili ma assai familiari presagi di morte, che corrisponderebbero alla inevitabile punizione divina. Una macchietta scura, “diagnosticata successivamente come efelide”, compare in una ansa del suo genitale dando il via alla certezza biblica di un tumore. A quel punto, perso per perso, condannato nella fantasia a morire, Alex si scatena in ulteriori, estreme,  ma incredibilmente esaltanti esercitazioni masturbatorie: nel reggiseno della sorella, nei calzini lavati dalla mamma, ovunque, sino alla prima premonizione di stampo parzialmente oggettuale che si profila con lo stupro di una bistecca di fegato appositamente comprata dal macellaio.

 La fantasia masturbatoria di Alex, cresciuto in una casa lustra come uno specchio, è una vagina vogliosa e insaziabile che lo reclama come potente e irresistibile “ maschione”, non solo dispensatore di piaceri irripetibili ma anche capace di estatici godimenti erotici.  E’ esattamente l’opposto di quanto rappresenta il padre in famiglia, con la sua inguaribile stitichezza: “ …se solo mio padre fosse stato mia madre e mia madre mio padre! Chi dovrebbe, di regola, avanzare contro di me retrocede; chi dovrebbe retrocedere, avanza!” 

Alex, a causa di questo gioco di ruoli, prima ancora di riattraversare la fase edipica in età adolescenziale, per usare parole della Mc Dougall ( 1990), si trova nella situazione di: “. figlio che sembra credere che il sesso e la presenza del padre abbia avuto un ruolo insignificante nella vita della madre…così il sesso e la presenza del padre sembrano non avere avuto un ruolo strutturante nell’organizzazione psichica del bambino…quando non esiste una fantasia  del pene paterno che svolga un ruolo libidico e narcisistico complementare nella vita della madre, la rappresentazione mentale del suo stesso sesso diviene quella di un vuoto illimitato …[ sino a ] proiettare su questo vuoto tutte le espressioni della sua megalomania infantile senza incontrare alcun ostacolo”( Mc Dougall 1990, pp. 117)

Solo nella sua emergente sessualità, campo negato e precluso alla impostazione asettizzante della funzione materna, Alex, adolescente, realizza di fatto una scoperta del tutto nuova di sé che lo induce a misurarsi in chiave immatura con l’onnipotenza e la grandiosità così precocemente e tenacemente compresse in epoca infantile. 

 La Désaffectation e la libertà

Incapace di gestire l’eccitazione e il desiderio Alex , un tempo bambino inibito a cui ogni impulso individuale era vietato, si smarrisce insomma in eccessi che nulla hanno a che vedere con la genitalità e con la relazione oggettuale di stampo adulto. 

Impossibilitato a conoscere globalmente il proprio corpo, così come di riconoscersi nei più veri sentimenti privati e negli affetti, costretto dalla costellazione originaria e quindi inadeguato soprattutto nel fronteggiare il rischio della dipendenza dall’Altro, Alex esaurita la fase della masturbazione prende quella della “Figomania”, suo modo deliberatamente sconcio ma efficace di definire i piaceri della sessualità,  e per altri versi utile anche a svelarne la patologia di area psicofisica desaffectée.

Il termine francese Désaffectation definisce un concetto caro alla Mc Dougall (1990), che lo utilizza per le psicosomatosi e per un certo tipo di sessualità compulsiva, e nasce da un contesto  non scientifico in quanto legato a quelle situazioni concrete in cui c’è stato un cambio di destinazione rispetto a quella originaria, come ad esempio accade a una chiesa che è stata sconsacrata. Il cambio di destinazione può, analogamente a una struttura architettonica,  verificarsi all’interno di particolari aree del mondo interiore di un individuo e del suo funzionamento psichico. 

Il concetto riguarda un meccanismo patologico che utilizza la diffusione per cui i soggetti “ ..si sforzano continuamente di disperdere immediatamente, sotto forma di azione, l’impatto di certe esperienze emotive. Ciò vale tanto per gli affetti generatori di piacere che di sofferenza…L’angoscia rende ingegnosi. Lancia segnali di allarme, ( le rappresentazioni dolorose sono o immediatamente espulse o scaricate nella azione) e certi individui corrono il rischio di non accorgersi di essere psichicamente minacciati.….[ si tratta ] non di una incapacità di contenere o esprimere emozioni ma di contenere un eccesso di esperienza affettiva e quindi di una incapacità a riflettere su tale esperienza “ ( Mc Dougall, 1990, pp. 100-102)

Riflettere? Non è un punto di forza, per Alex. Il suo problema centrale è l’impossibilità di affrontare una esperienza relazionale completa perché soggettivamente insostenibile; cosi avviene in lui, incapace di pensare su di sé, di dare un senso al proprio sentire, in una parola del tutto precario nel processo di soggettivazione, lo snaturamento e il cambio di destinazione della pulsione sessuale, che in ultima analisi è legata alla riproduzione. Questo a partire dallo sviluppo puberale, secondo un processo di désaffectation che ha esteso alla sua intera vita sentimentale. 

I legami del giovane Portnoy si orientano su donne fatue, disinvolte, poco impegnative, di livello culturale nettamente inferiore al suo e tutte, Mary-Jane, Kate, Sarah, ecc.,  di certo femmine molto eccitanti ma rigorosamente “shikses”: di origine non ebraica. Non sentendo una vera appartenenza rispetto al paese natale, gli Stati Uniti, ma neppure nei confronti della lontana terra originaria, Israele,  trovandosi psicologicamente in una terra di nessuno abitata prevalentemente dalla colpa, nella scoperta della sessualità sperimenta l’unico modo apparentemente non monitorato dalla madre di appropriarsi di quel mondo vietato che ha vissuto sempre in posizione di diverso.  Si comporta, in sintesi: “ come se scopando volesse scoprire, conquistare l’America.” Cioè: “ possedere” la sua madre-patria, dove è stato indotto a sentirsi inadeguato e straniero. 

Vive il suo prestigio sociale come una truffa, – un falso Sé -, e si muove clandestinamente in una chiave che è quella della foga e della violazione. Tutto ciò degrada e rende degradati. Alex non viene a capo del suo bisogno di esistere come soggetto e di sentire una solida appartenenza.  Non c’è in questo suo movimento inelaborato lo spazio di vivere i sentimenti, i legami e le relazioni affettive in chiave feconda e calorosa, di sentirsi a casa. Non sa cosa è l’amore. Credendo di superarla si muove sul piano della dipendenza, come se il sesso equivalesse a una droga, e rimane nella sua infelicità stuporosa di cui non ha però coscienza. 

Sino a un certo punto della sua vita, insomma,  il suo problema resta sostanzialmente sul piano egosintonico.

“ Restituiamo l’ID ( inconscio) all’YID ( ebreo)”, sarà la battuta che segna la sua nuova consapevolezza, sopraggiunta solo  quando, traumaticamente, prende un contatto frontale con la sofferenza.  

Illudendosi di svincolarsi dalla famiglia e di disidentificarsene, era partito per un lungo viaggio nonostante gli ostacoli opposti dalla madre. Approdato, dopo un lungo giro,  alla Terra promessa, avverte con trepidazione delle sensazioni per lui sconosciute: “ Lascio la stanza per andare a fare un tuffo in mare con i gioiosi ebrei. Sguazzo in una mare pieno di ebrei. Ebrei che scherzano e fanno capriole. Guardare le loro membra ebree che cha si agitano nell’acqua ebrea. Guardare bambini ebrei ridere, comportarsi come se fossero i padroni del luogo…e lo sono! Su e giù per la spiaggia, a perdita d’occhio, ebrei. Sotto di me la sabbia è calda: sabbia ebrea….Alex nel paese delle meraviglie!”.   

Emozioni, sorpresa, leggerezza dell’essere, qualcosa dentro di lui  si muove e slatentizza una sorta di magica nostalgia. Forse Israele lo risarcisce della perdita irreversibile dell’”involucro” che un tempo lo aveva “contenuto” e che un giorno era stato tagliato via per sempre dalla pancia della  madre? Forse ha trovato-ritrovato, nella terra degli avi, la innocente, primaria e perduta dimensione della felicità? Forse, in quella terra vissuta sempre come lontana, finalmente ha incontrato la condizione profonda della libertà?

“Libertà”, scrive Pellizzari (2007)”…si esprime nell’attraversamento del vuoto, conseguenza dell’uccisione simbolica dei genitori che genera la solitudine del giovane adulto, orfano di fronte all’incertezza delle scelte che deve compiere. Il vuoto, se non viene riempito compulsivamente  di agiti solo apparentemente trasgressivi ma in realtà regressivi, non è mai assoluto ma sempre, per così dire ombreggiato dall’oggetto edipico rimosso, divenuto inconscio, che svolge una funzione non interamente deterministica, ma anche orientativa   e favorisce i processi di identificazione e disidentificazione con nuovi oggetti di investimento…” 

Alex non ha compiuto tale percorso simbolico, non ha vissuto in termini risolutivi l’elaborazione dell’Edipo, non ha potuto veramente esistere. Ci sono vuoti dentro di lui – quello infantile dell’elemento terzo maschile-fallico-libidico, e quello adolescenziale del confronto con lo stato di solitudine-disidentificazione – che nelle varie tappe della sua vita non hanno potuto ricevere la giusta risposta.  I vuoti che ha incontrato sono stati coperti da falsi contenuti e da strategie illusorie. In breve, la funzione regolatrice e normativa del Fallo (Lacan, 1966), simbolo della castrazione paterna e del superamento dell’Edipo, non ha preso il posto di un SuperIo arcaico ( legato alla intrusività materna) che continua a entrare in conflitto con la esuberanza delle pulsioni. Di qui, le prevedibili conseguenze.

Proprio lì, in Israele, oramai uomo maturo ma ancora interiormente irrisolto per l’incompiutezza della propria adolescenza, incontra una donna bella, di pelle abbronzata, con occhi verdi, colta, tenente dell’esercito, animata da una ideologia profonda e, naturalmente, ebrea come la madre di lui: di quella donna, crede, potrebbe per una volta essere innamorato! Ma  proprio li invece, proprio allora, il suo illusorio punto di forza, il mitico pene, con la sua velleità di onnipotenza, impietosamente lo tradisce

“ Dottore, forse gli altri pazienti sognano le cose….a me succedono. Dottore, non riuscivo a farmelo rizzare nello stato di Israele! Che ne dice di questo simbolismo, bubi? Chi sarebbe capace di far meglio? Non mantenere una erezione nella terra promessa! Proprio questo mi serviva, quando lo volevo, quando c’era qualcosa di più desiderabile della mia mano da penetrare !”.

Lo psicoanalista non ha detto e non dirà nulla tutto il tempo dello sfogo. E’ in ascolto, con una disposizione empatica. Comprende. Tutte cose, queste, assai  poco familiari per i Portnoy!   

Al culmine dell’inarrestabile soliloquio, che in un crescendo di emotività lo vede stravolto dalla impotenza e dalla disperazione, Alex non ha più parole per liberare l’angoscia ed esplode in un estremo, incontenibile grido… La sua è una  impossibilità di dia-logare con l’Altro in nome della priorità- necessità di ex-pellere, secondo lo stile insuperato che ha vissuto in famiglia. 

Il buon analista non entra nel gioco degli agiti e non interpreta ( Aulagnier 1994). Semplicemente restituisce: “Allora, forse adesso potremmo cominciare. No?”. 

La relazione analitica, come la pubertà, è talvolta un Inizio.

Maria Antonietta Fenu

 

Riassunto

L’autrice, seguendo le memorie dell’infanzia e dell’adolescenza di Alex Portnoy, nato negli Stati Uniti da una famiglia ebraica, collega ai tratti ossessivi della madre e al suo narcisismo ipervigile, lo sviluppo, nel figlio, di una sessualità compulsiva. L’impossibilità di elaborare correttamente le varie tappe dell’ Edipo, prima dell’adolescenza  e durante, la conseguente impossibilità di stabilire una relazione di tipo genitale, crea con le diverse tappe evolutive dei vuoti gravi nel funzionamento interiore di Alex, che egli, ragazzino immaturo, crede illusoriamente di risolvere attraverso la scarica pulsionale e gli agiti compulsivi. Liberare la tensione per l’incapacità di contenerla e gestirla non coincide con l’esperienza dell’appagamento, ma induce a una ripetizione ossessiva, fuorviante e deludente. Tale malinteso nasce da una lacunosità del processo di soggettivazione e dello spazio psichico, inadeguato a individuare e raggiungere un profondo soddisfacimento dei bisogni, sino al doloroso traguardo della consapevolezza.  Anche dall’analista, sebbene desideroso di venire a capo dei suoi problemi, Alex ripeterà, agendolo, il suo vuoto, attraverso una modalità compulsiva dell’uso della parola. Alex, stretto tra un SuperIo arcaico e la tirannia delle pulsioni è incapace sia di riflessione sia di elaborazione: espelle. Sarà compito dell’analisi ripartire dall’Inizio. 

Parole chiave

Narcisismo grandioso, narcisismo ipervigile. Pulsione, compulsione, espulsione. Dèsaffectation, diffusione. Fallo, castrazione, funzione normativa. Vuoto. Inizio.

BIBLIOGRAFIA

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  • Roussillon R. ( 1997): Il setting psicoanalitico, Roma, Borla

 

Il titolo vuol dire “Prendili per tempo” e il contenuto del breve testo descrive come trasformare un breakdown in una breccia (breakthrough) nel Sé del paziente; lo scopo inconscio del breakdown, spiega l’Autore, è di presentare il Sé all’altro per ottenere una comprensione trasformativa.

Christopher Bollas, presentando il suo approccio radicale al trattamento delle persone sull’orlo del crollo psichico, offre un nuovo e coraggioso paradigma clinico che risulta di estremo interesse per uno psicoterapeuta psicoanalitico.

Catch them” offre un’altra visione alla comprensione dei vari vertici riguardanti il trattamento del “breakdown” di quelle persone che definisce un “Sé a pezzi”.

In quest’epoca, in cui i trattamenti psichiatrici e gli interventi cognitivo-comportamentali risultano l’approccio più prudente e al tempo stesso più efficace, Bollas riesce a dimostrare l’importanza di un approccio intrapsichico allo stato mentale della persona in breakdown e presenta varie ragioni convincenti sull’importanza di fornire al paziente un’esperienza in cui l’eruzione inconscia possa facilitare un “nuovo inizio psicologico”.

Il testo è sorprendentemente semplice da seguire, sebbene comporti spesso la necessità di tornare indietro di qualche pagina per rileggere alcuni passaggi fondamentali. Rivisitando il volume, infatti, si trovano e ritrovano continuamente pensieri che possono essere utilizzati in tutti i modelli del discorso psicoanalitico e, al tempo stesso, si rimane costantemente con un sentimento di speranza e di fiducia sull’importanza di sostenere coloro che devono affrontare un dolore mentale inimmaginabile. Questi vissuti rappresentano un dono raro quando si legge un libro sia per il lettore che non è del settore sia per uno psicoterapeuta professionista.

Bollas inizia la sua ricca esplorazione con la fenomenologia dei “Sé spezzati” – quelli che hanno subito precedenti breakdown non psicotici – e descrive le variazioni che tali Sé spezzati possono presentare e le possibili conseguenze dannose a cui può andare incontro il paziente quando, davanti al “crollo”, lo psicoanalista ansioso lo indirizza a una terapia di gruppo o a un training di gestione dell’ansia oppure dà indicazioni per un ricovero ospedaliero e/o un intervento psicofarmacologico: in questo modo il breakdown diventa strutturale e «la personalità si ricostituisce intorno agli effetti del breakdown, riordinando il Sé al fine di funzionare e sopravvivere in condizioni significativamente ridotte. Questo preannuncia una esistenza futura misera” (p. 25). Si nega infatti al paziente l’opportunità di un trattamento psicoanalitico intensivo che – nella tecnica proposta da Bollas – può durare un’intera giornata o anche più giorni all’interno dello studio dello psicoanalista.

Il capitolo “segnali di breakdown” richiede più letture e risulta difficile poterlo sintetizzare in una sola recensione. Riporterò solo alcuni pensieri nodali sui “segni di breakdown” in cui lo psicoterapeuta psicoanalitico può imbattersi: un rallentamento della consueta modalità di parlare, uno sguardo fisso nel vuoto oppure un esordio improvviso, più frequente in pazienti molto vulnerabili, ma con difese rigide. Il terapeuta deve scoprire in dettaglio cosa è accaduto nei giorni precedenti e deve tollerare il fatto che il paziente possa rispondere “niente” più volte. L’analista a questo punto deve diventare “inquisitivo” – afferma Bollas – offrendo una presenza terapeutica attiva e ponendo domande precise come: «Raccontami solo quello che hai fatto durante il week-end» oppure «Allora, che succede?”.

Nel capitolo successivo Bollas indica le linee guida per lavorare con le persone che hanno un breakdown come, ad esempio, l’importanza di collaborare con uno psichiatra, di trovare un taxista che garantisca la partecipazione alle sedute e il ritorno a casa, gli aspetti relativi al pagamento, ecc.

Ampio spazio è dedicato ai resoconti del lavoro concreto svolto con i pazienti: Emily, Anna, Mark e, infine, Bollas dedica uno spazio all’indagine sulla natura dell’esperienza differita che ha portato al breakdown.

L’analista – sottolinea Bollas – deve attendere fino a quando l’analizzando non sarà in grado di parlare e, se questo richiede più tempo di quanto se ne utilizza in seduta, allora occorrerà fornirgliene di più. Il tempo, sostiene l’autore, è la variabile cruciale se si vuole aiutare un paziente sull’orlo del crollo psichico (p. 82).

Un altro tema, nel pensiero di Bollas, è l’importanza della “spiegazione”, scritta o meno, che serve alla persona che sperimenta un breakdown; la spiegazione rappresenterà l’“oggetto lucido”, ovvero fungerà da organizzatore psichico favorendo lo sviluppo di una nuova struttura psichica del Sé.

Questo libro indica ai clinici che il lavoro psicoanalitico tradizionale è insufficiente con i pazienti in breakdown e che è necessaria una psicoterapia psicoanalitica intensiva e, a tratti, anche direttiva. Leggere la stimolante proposta di Bollas susciterà nel lettore molte domande; alcune di queste, nella sezione finale del testo, si ritroveranno sicuramente in quelle poste da Sacha Bollas all’autore attraverso un preciso schema di domande e risposte.

In conclusione, conoscere il modo di lavorare di Bollas potrà rendere il difficile lavoro psicoanalitico più promettente per il futuro e, come tale, la lettura di questo testo potrà rappresentare per il clinico il suo oggetto lucido, ovvero l’opportunità per un nuovo modo di lavorare come psicoterapeuta con i casi difficili.

Salvatore Capodieci
Socio ordinario della SIPP

Come spesso accade i romanzi e le novelle di Balzac subiscono molti rifacimenti e spesso cambiano titoli. Anche questo lungo racconto – o se vogliamo dire romanzo – di Balzac ha avuto una lunga gestazione. La prima versione è intitolata “La Transazione” si presenta pubblicata in quattro puntate sulla rivista letteraria “l’Artista” a febbraio ( il 19 e il 26) e a marzo ( il 5 e il 12 ) del 1832. Balzac ha 34 anni, iniziano i suoi successi letterari con La “Fisiologia del Matrimonio”, con “La pelle di Zigrino”.

La consacrazione come scrittore di successo avverrà, però, nel 1833 con “Eugénie Grandet “e nel 1835 con “Le père Goriot“, ma ancora non è delineato il grande progetto della “Comédie Humaine“.
Nel 1834 appare una seconda versione rimaneggiata con un nuovo titolo “La Contessa con i due mariti“, pubblicata con l’editore Bechet, nel XII tomo delle “Scene della vita parigina“, nella parte riguardante “Gli studi dei costumi del XIX secolo.“
La terza versione vede finalmente, nel 1844,il titolo definitivo, “Il Colonnello Chabert“, all’interno della Comédie Humaine con l’editore Furne, nel II tomo delle “Scene della vita parigina“.
Balzac, però, non fu molto contento del titolo.
Sempre rifacendoci alla seconda versione Balzac sognava di inserila in un volume “La Causeries du soir“ e in seguito di pubblicarla in due volumi negli “Studi di donne“. Infatti era molto interessato all’universo femminile. Sopra un foglio egli aveva fatto degli appunti a riguardo, pensando di approfondire i temi femminili ; donna sola, con due mariti, abbandonata, senza cuore, ecc.
Avendo ricevuto solo un acconto dall’editore de “L’Artiste“, Ricour, si arrabbiò molto con lui, perchè questi aveva ceduto a sua insaputa i diritti all’editore Fournier, che a sua volta aveva pubblicato il racconto nella sua rivista “Le Salmigondis“ e aveva messo il titolo “Le comte Chabert“ . Balzac contestando Ricour in quanto non aveva il diritto di cedere la proprietà della “Transazione“ gli fece causa presso il Tribunale del Commercio. Soltanto dopo due anni, nel 1834, vincerà la causa e chiederà a Mme de Berny di fare le giuste correzioni in quanto la rivista aveva delle imperfezioni e lui essendo rientrato nei suoi diritti poteva rivedere la dua opera.
Questo lunga genesi ci regala, però, un capolavoro.”

Entriamo adesso nel vivo dell’opera. Dal punto di vista psicoanalitico il romanzo esprime la sofferenza di una ferita narcisistica, talmente intensa da incidere sull’identità. Un’dentità ritrovata a fatica, per la quale si è lottato e che per il mondo, secondo gli aspetti legali, non esiste più.

Il moderno Ulisse,- il Colonnello Chabert – al suo ritorno dalla guerra, creduto morto, non trova una casta Penelope ad accoglierlo, ma una donna senza cuore, spregiudicata e perfida.
Balzac, in questo romanzo, ha messo in luce sentimenti forti, pieni di patos, che rimandano a problematiche personali. È spesso il suo inconscio a parlare e a essere drammatizzato nei suoi personaggi. Cosí viene messo in scena l’abbandono materno, il desiderio di vendetta, la delusione subita.
La forza della proiezione è uno strumento letterario potente, ma solo un artista è capace e può essere in grado di maneggiarlo. Ciò che si vive nella realtà viene riletto e restituito ad un ordine collettivo. Assistiamo a pagine nelle quali, la derisione, l’ingenuità, l’umiliazione, la violenza, la bontà, la comprensione, l’altruismo, la lealtà, il disinteresse, la perfidia, l’egoismo, l’inganno, la caduta dell’amore, l’orgoglio si fanno carne nella eterna dialettica tra la vita e la morte.
Nel Colonnello Chabert si racconta una storia di guerra, una delle tante vicende, a cominciare dai racconti classici, del ritorno di un reduce. Dopo otto anni, dopo traversie infinite, egli si presenta nel teatro della sua vita, creduto solo da chi ha un’anima retta e onesta, da chi è capace di cogliere la verità autentica.

Poche persone secondo Balzac hanno questo dono.
Un dato molto importante per comprendere meglio il romanzo è rappresentato dalle influenze che il nostro scrittore ha vissuto in famiglia, essendo il padre un funzionario militare prima nell’armata repubblicana, poi nell’armata imperiale fino alla disfatta di Waterloo. Non solo aveva potuto ascoltare avvenimenti di soldati che avevano perso la memoria circa la loro persona, ma anche che ritornavano come dei “ redivivi“. Inoltre era presente in quegli anni un certo interesse per la letteratura militare e lo stesso Balzac si era cimentato, anche sotto pseudonimo, nel 1828 in“Le Dernier Chouan“ e in altri racconti che è lungo ricordare.
Un altra considerazione da non fare passare sotto silenzio, palesemente presente ne “Il Colonnello Chabert“, riguarda l’esperienza notarile di Balzac presso lo studio di Guillonnet – Merville e di Victor Passez a seguito della sua laurea in giurisprudenza voluta da sua madre.
Fin dall’incipit ci troviamo nella realtà da lui vissuta e assistiamo dal punto di vista tecnico ad una delle caratteristiche di Balzac; quella di far presentare il personaggio principale dai personaggi secondari. Il colonnello Chabert viene presentato attraverso le parole dei “galoppini“e si preannuncia con quelle che sono le caratteristiche della sua vicenda esistenziale, con una descrizione fisica di grande sofferenza e di grande povertà.

L’aspetto che colpisce é la commistione di realtà e di fantasia che sempre troviamo nell’opera del nostro scrittore.
Egli infatti concepiva la vita come un romanzo e il romanzo come la vita. Un visionario travestito da realista come affermava Baudelaire.
La descrizione puntuale, il linguaggio del quotidiano sono espressione di una tecnica letteraria ormai matura che si esprime in ipotesi rendendo il lettore incuriosito e sospeso di fronte agli avvenimenti. Il romanzo si articola tra le due realtà parigine, il quartiere dei ricchi, il faubourg Saint- Germain e quello dei poveri, il quartiere Saint -Marceau, ma l’avvenimento più importante è rappresentato dalla battaglia di Eylau del 1807, una tra le più sanguinose battaglie nella quale Napoleone sconfisse i Russi.

Non è un caso, quindi, il fatto che Balzac si rifaccia a questo episodio storico. Egli era un grande ammiratore di Napoleone, tanto che spesso aveva affermato che sarebbe diventato un Napoleone della penna. La sua grande ambizione e la consapevolezza del suo genio gli fece dire :“ Quello che Napoleone non riuscì con la spada io lo condurrò a termine con la penna“.
Con estrema maestria, leggerezza e profondità Balzac dosa le varie parti del romanzo, storiche, sentimentali, sociali e giuridiche. Il lettore è catturato da emozioni diverse.
Si diverte nella descrizione scanzonata dei giovani “galoppini“ dello studio, prova orrore nelle immagini di guerra, ammirazione per la forza morale del protagonista, disprezzo per la falsità della moglie, conforto per la professionalità dell’avvocato.

Potremmo affermare che la morale del “Il Colonnello Chabert“ risiede nell’affermazione della ricerca della vera identità, del “vero Sé“, non di una identità falsa non nella sola identità sociale, ma in quella che l’individuo da a se stesso, non piegandosi a compromessi facili.
Come in ogni romanzo di Balzac il lettore attento deve ricercare il messaggio nascosto, il rifiuto dell’ipocrisia, che lo scrittore nel suo tempo riscontrava nella classe aristocratica e borghese, che si vendeva per raggiungere posizioni di potere e di guadagno con spregiudicata libertà, sacrificando la morale e l’onestà . La dignità non si vende. Un messaggio forte quello di un uomo che ha rischiato la vita per la patria e per il proprio Imperatore.
Morale troppo lontana questa dai giorni nostri. Nei tre protagonisti, il colonnello, il giurista, la moglie, sono incarnate l’onestà, la rettitudine e la cattiveria.

L’impianto drammatico, la ricchezza dei contenuti storici ha reso il romanzo adatto per una produzione cinematografica. C’è da dire che nei 1832 era stata realizzata una riduzione teatrale. La “Transazione“, ossia la seconda versione, era stata messa in scena a teatro dal fratello di un amico di Balzac, Jacques Arago e da Louis Lurine con il titolo Chabert. Il lavoro fu molto criticato dal perfido Jules Janin, ma la rivista “La Quotidienne“, la stessa rivista che fece iniziare la storia d’amore con la Contessa Hanska,fece degli elogi, considerandola , nuova e stimolante, interessante, emozionante, i personaggi ben descritti. La cosa più importante fu che uscí in modo quasi profetico con il titolo del romanzo.

Il primo film risale al 1911 il cui regista fu Henri Pouctal, con Claude Garry, Aimée Raynal e Romuald Jubé.
Il più apprezzato e forse il più conosciuto è stato quello del 1994 di Yves Angelo, con artisti ben noti a tutti, quali Gérard Depardieune a Fanny Ardant.
Quello però più riuscito è la versione del 1943 di René Le Hénaff, dove l’attore Raimu è superbo nel ruolo del Colonnello. Anche Marie Bell incarna bene la Contessa Ferraud.

Roma 23 agosto 2017

Nel 2018 Andrea Clarici ha curato per Raffaello Cortina l’edizione di una raccolta di scritti di Mark Solms, fondatore nel 2001 insieme a Jaak Panksepp e ad altri neuroscienziati e psicoanalisti di The Neuropsychoanalysis Association (NPSa) e della rivista “Neuropsychoanalysis”; significativa appare la sua recente nomina a Chair dell’International Psychoanalytic Association Research Commitee.

Mark Solms, psicoanalista e neuroscienziato, è docente di Neuropsicologia presso l’Università di Città del Capo. Le sue doti di ricercatore e le sue capacità di comunicare hanno contribuito a migliorare la comprensione e il dialogo fra neuroscienze e psicoanalisi; due discipline fondate su presupposti epistemologici e metodologici molto diversi, che hanno passato un lungo periodo di diffidenza reciproca e di contrapposizione, ma che sembrano inevitabilmente spinte ad un dialogo dallo sviluppo dei rispettivi modelli, dall’approfondimento delle conoscenze dei rispettivi campi di indagine e dal condividere in definitiva lo stesso oggetto di studio che, in funzione del punto di vista, ci appare di diversa natura.

Il libro presenta una raccolta di scritti e di lavori pubblicati e/o presentati in congressi internazionali in un arco di tempo che va dal 1996 al 2015, il periodo nel quale si è sviluppato l’approccio neuropsicanalitico. La successione dei capitoli non risponde ad un ordine cronologico, ma ad uno sviluppo per temi.

Nei diversi scritti è possibile riconoscere due fondamentali intenti comunicativi di Solms nel rivolgersi a psicoanalisti, a neuroscienziati, e ai numerosi studiosi che aderiscono alle idee della neuropsicoanalisi:
1. In primo luogo la tensione argomentativa cambia, appunto, in funzione degli interlocutori del momento e del contesto: in molti brani ad esempio prevale l’impegno di definire le basi filosofiche, l’ontologia e le epistemologie della psicoanalisi e delle neuroscienze che generano differenti “oggetti di conoscenza”, modelli e metodi di studio e di ricerca diversi; sono queste diversità, dice Solms, alla base dell’ardua questione della relazione mente-corpo, sistema nervoso-apparato mentale.
Nelle relazioni presentate in occasione di convegni e congressi, prevale invece l’intento di promuovere il dialogo fra psicoanalisti e neuroscienziati, anche marcando opposizioni e differenze non riducibili, per accreditare in primis la necessità di una interazione collaborativa fra le due discipline. È questa la base sulla quale Solms si impegna a giustificare e dare valore alla neuropsicoanalisi che non è e non deve essere una nuova disciplina, ma un campo di ricerca e di pratica clinica, terreno di incontro e di scambio dei due mondi scientifico-culturali che, ribadisce l’Autore, sono e devono rimanere distinti, anche se non separati.

2. La seconda osservazione riguarda il ripetersi, quasi in ogni scritto, delle premesse teoriche che riguardano sia i fondamenti ontologici, sia i problemi epistemologici insiti nello studio dell’apparato mentale e del sistema nervoso. Queste premesse sono la fonte delle argomentazioni neuropsicoanalitiche e hanno orientato intere correnti di studi e di ricerca sia nelle neuroscienze che in psicoanalisi, favorendo di fatto significative convergenze e integrazioni: le scoperte sui diversi tipi di memoria (Mancia, 2006; Solms, Turnbull, 2004), la distinzione tra aspetti impliciti ed espliciti (Mancia, 2007; Merciai, Cannella, 2009), gli effetti del trauma e quelli della psicoterapia (LeDoux, 2002; Merciai, Cannella, 2009); i modelli elaborati da Georg Northoff sul Sé (Northoff, 2006) e sui disordini dell’esperienza del tempo.
La riflessione sul metodo è forse uno dei maggiori meriti di Solms. I riferimenti alla filosofia di Kant e di Spinoza sono gli stessi di Freud, rielaborati alla luce della crisi irreversibile del neopositivismo. Partendo da una posizione da lui definita “realismo debole”, Solms sostiene la necessità di considerare l’esistenza di una unica realtà esterna; citando Freud egli dice che “mente e cervello sono la stessa parte della natura”, una realtà unica di per sé inconoscibile che esiste nel mondo.

Questa realtà però appare alla nostra percezione sotto due forme diverse:
Se la osserviamo attraverso le percezioni del nostro apparato sensoriale vediamo una realtà materiale, un “oggetto concreto nel mondo esterno”; un cervello, un sistema nervoso con i suoi neuroni, sinapsi, molecole biochimiche, impulsi elettrici; una attività cerebrale che può essere studiata con metodi oggettivi, ma non per questo certi e infallibili.
Se invece assumiamo la modalità percettiva che consiste nell’esperienza soggettiva che facciamo dei nostri pensieri, delle nostre sensazioni ed emozioni, attraverso l’introspezione, l’oggetto che si presenta alla nostra attenzione è una mente, e possiamo cominciare a fare inferenze sul suo funzionamento, immaginare un apparato mentale. La mente, il suo funzionamento, la soggettività dell’esperienza, non sono direttamente indagabili attraverso percezioni oggettive, non possono prescindere dalla soggettività, “cosa si prova ad essere il cervello e il corpo che sono …”.

Solms sostiene che bisogna cercare di “osservare il mondo da due prospettive contemporaneamente”, attraverso una visione “binoculare” che permetta di cogliere due aspetti della stessa realtà; “… un monismo dal duplice aspetto percettivo …”. Georg Northoff, parla dell’esigenza di trovare un “collegamento concetto-fatto …” (Northoff, 2010).

Porre l’esperienza soggettiva al centro dell’indagine sui fenomeni mentali costituisce da un lato un cambiamento radicale di paradigma per le neuroscienze cognitive che si aprono all’indagine delle emozioni, della vita affettiva e degli aspetti motivazionali della psiche umana; dagli anni ’90 del secolo scorso si parla appunto di neuroscienze affettive. Da un altro punto di vista indagare la soggettività crea un terreno di dialogo con la psicoanalisi che fonda le sue teorie e i suoi modelli proprio sulla soggettività dell’esperienza, condivisibile attraverso la parola e l’ampia gamma di comunicazioni implicite e non verbali sulle quali si fonda l’empatia. Si pensi all’importanza della sincronizzazione madre-bambino studiata fino dagli anni ‘80 da Stern e Tronik.

In più occasioni Mark Solms sostiene che la neuropsicoanalisi non è una nuova disciplina nella quale confluiscano i saperi di neuroscienze e psicoanalisi, ma un terreno di incontro, di confronto e di scambio di saperi: “la psicoanalisi e le neuroscienze sono e continueranno ad essere due discipline intrinsecamente differenti … che impiegano metodi diversi per studiare due aspetti complementari della mente umana, l’aspetto soggettivo e quello oggettivo, nessuno dei quali è riducibile all’altro o più reale dell’altro”. (p.87) Con queste parole Solms sembra scongiurare qualsiasi forma di riduzionismo dei fenomeni osservati sia in un senso che nell’altro.

Per quanto riguarda più dettagliatamente i contenuti del libro, Andrea Clerici ha suddiviso i vari scritti in tre parti:
– Una prima parte che tratta dei fondamenti della neuropsicoanalisi
– Una seconda parte nella quale vengono trattate le controversie in neuropsicoanalisi
– Una terza parte dedicata ai lavori teorici che affrontano il modo di considerare l’inconscio della neuropsicoanalisi.

Nell’articolo: “Che cos’è la neuropsicoanalisi” pubblicato nel 2015 l’Autore ripercorre insieme a Oliver Turnbull le vicende che hanno portato alla nascita di questo approccio e ne delinea i fondamenti storici, partendo dal legame fra funzione e struttura, evidenziato dallo stesso Freud, i fondamenti filosofici che partono da un “Monismo dal duplice aspetto percettivo”, e quelli empirici.
Segue una lettura presentata nel 2007 ad un Forum internazionale “Che cosa è una mente? Un approccio neuropsicoanalitico”, nel quale vengono messi a confronto i principi sui quali si basa il modello psicoanalitico della mente. Il presupposto del modello psicoanalitico è che la maggior parte dell’attività mentale sia inconscia, come affermava Freud dicendo che la vita mentale è per sua natura inconscia. È questo l’oggetto del lavoro psicoanalitico. Nelle parole di Solms: “… noi non crediamo che la mente sia mentale di per se stessa (in senso kantiano); crediamo invece che l’universo soggettivo … sia una prospettiva osservazionale della mente, non la mente stessa. La soggettività (la prospettiva introspettiva) è una mera percezione. La mente stessa è rappresentata dalla percezione introspettiva (p.30).

La prima parte si conclude col capitolo di un libro del 2004 dal titolo “Il cervello è più reale della mente?”. Si tratta di un vero e proprio attacco al riduzionismo adottato anche da una parte della psichiatria che considera i sintomi psicologici “derivati” delle condizioni organiche e quindi “secondari”. Le argomentazioni sono corredate da interessanti casi clinici di pazienti con lesioni organiche cerebrali. Una delle affermazioni chiave è che: “Gli stati mentali e fisici rappresentano due aspetti della realtà irriducibili gli uni agli altri”.

La seconda parte, sulle controversie in neuropsicoanalisi, raccoglie cinque scritti.
I primi due “Contro la neuropsicoanalisi” e “In difesa della neuropsicoanalisi”, riassumono gli argomenti salienti del dibattito pro e contro l’utilità di una interazione fra neuroscienze e psicoanalisi. Alle critiche di Rachel B. Blass e di Zvi Carmeli vengono date risposte da Mark Solms, Yoram Yovell e Aikaterini Fotopoulou. Le argomentazioni a favore poggiano essenzialmente su alcuni punti chiave:

a. La crisi del funzionalismo e della metafora hardware-software, fuorviante nel comprendere la relazione mente-cervello.
b. Il fatto che qualsiasi teoria psicoanalitica non può che essere ontologicamente limitata dalle basi biologiche della mente.
c. Il nodo ancora non sciolto della tensione fra il regno dell’oggettivo e del soggettivo.
d. La natura del tutto convenzionale di una distinzione fra “biologico” e “psicologico”, “funzionale” e “organico”. Soggetti psicologicamente integri o con problemi psicologici possono avere alterazioni neurologiche. Dice Solms: “E’ innegabile che il cervello plasma i significati e i significati plasmano il cervello”, è noto ad esempio che l’anticipazione dell’analgesia da oppiacei induce modificazioni nella percezione del dolore simili a quelle indotte dal farmaco; ma, in definitiva, anche la comunicazione verbale, simbolica, e le modalità implicite di comunicazione, inducono modifiche strutturali e funzionali nel sistema nervo centrale.
Seguono altri due lavori che esprimono rispettivamente una critica e una difesa della teoria freudiana del sogno: “Inattualità della teoria freudiana del sogno” che John Allan Hobson presenta nel 2006 alla Conferenza “Toward a Science of Consciousness”, al quale fa seguito la risposta di Mark Solms nello stesso contesto “Attualità della teoria freudiana del sogno”.

Le argomentazioni neuroscientifiche contro la teoria freudiana del sogno vengono controbattute partendo da una analisi accurata di quello che Freud dice effettivamente sul sogno. Le stesse argomentazioni sono poi messe a confronto con una rilettura approfondita dei dati delle ricerche più recenti delle neuroscienze, che in effetti sono in sintonia con molte delle idee di Freud sul sogno. Di particolare interesse sono anche i legami messi in luce fra sogno e allucinazione, fenomeni correlati dalle significative assonanze del funzionamento simultaneo delle aree cerebrali e dei sistemi di mediatori neurochimici coinvolti nei due processi. In particolare leggiamo che: “I sogni sono promossi, ma non causati, dall’attivazione del tronco encefalico” e che le condizioni perché si verifichi il sogno sono simili a quelle che si riscontrano nelle esperienze allucinatorie e allucinosiche: una intensa attivazione dei meccanismi prosencefalici profondi legati alle emozioni; una inibizione della corteccia prefrontale dorso laterale, deputata al controllo; la disattivazione del sistema motorio e la concomitante iperattivazione del sistema percettivo posteriore.

Nell’ultimo capitolo della seconda parte “Sogni e psicosi. Un’ipotesi neuropsicoanalitica” Solms presenta una idea interessante sui legami fra sogno e psicosi. La premessa sta nella ridefinizione delle caratteristiche della percezione, non una semplice ricezione ed elaborazione degli stimoli che provengono dall’esterno, ma una attività “costruttivi” del cervello il quale funzionando come organo “predittivo”, proietta le sue anticipazioni e aspettative anche sulle percezioni sensoriali elementari.

La terza parte del libro, sull’inconscio in psicoanalisi, raccoglie i maggiori contributi teorici all’approfondimento, alla riflessione e in certi casi alla ridefinizione di alcuni argomenti centrali per la psicoanalisi e per le neuroscienze. Sono tutti lavori di Mark Solms che si succedono dal 1996 al 2015 e marcano l’evoluzione del suo pensiero, fortemente intrecciato e influenzato dalle idee e in certi casi dalla collaborazione con alcuni fra i maggiori neuroscienziati del nostro tempo, fra i quali Gerald Edelmann, Antonio Damasio, Jaak Panksepp, Georg Northoff.

I due lavori “L’inconscio in neuropsicoanalisi” e “Verso un’anatomia dell’inconscio” riassumono uno dei contributi più originali di Solms ad un modello della mente che partendo dalle idee di Freud tenga conto delle conoscenze neurologiche acquisite negli ultimi cento anni sul funzionamento del sistema nervoso centrale. Freud in “L’interpretazione dei sogni” (1899) dice: “L’inconscio è lo psichico reale nel vero senso della parola” e Solms argomenta che l’attività mentale tende a farsi automatica, implicita, e a non richiamare la coscienza se non in particolari condizioni. La coscienza però oltre a differenti gradi quantitativi si differenzia anche per stati qualitativi eterogenei. Esiste una “coscienza nucleare”, come la definisce Damasio (2010) all’origine del “proto-Sé”, implicita, non verbale, generata da zone molto antiche del tronco encefalico, comuni a tutti i mammiferi, le cui qualità sono prevalentemente affettive, la «proto-coscienza affettiva» per Solms e Panksepp (2012).

Ne consegue un ribaltamento topografico del modello freudiano nel quale la maggior parte delle funzioni inconsce è corticale; la coscienza è una proprietà stratificata nell’organizzazione del SNC, come nella filogenesi, dal basso verso l’alto in modo gerarchico e con crescenti gradi di astrazione fino alla coscienza autobiografica o autonoetica; ogni strato poggia su quello sottostante e danni ai livelli più bassi provoca una scomparse totale di coscienza, mentre lesioni alte, fino alle forme congenite di anencefalia, permettono il sussistere di forme di coscienza più profonde di qualità eminentemente affettiva.
Seguono ancora lavori di grande importanza teorica sulle fantasie inconsce “Esistono veramente le fantasie inconsce?”; la memoria “Il ruolo della memoria in psicoanalisi”; gli affetti “Un contributo psicoanalitico alle neuroscienze affettive”; la rimozione “Che cos’è la rimozione”; la coscienza “La coscienza dell’Es”.

È impossibile riassumere in questa presentazione l’originalità e l’articolazione delle riflessioni su questi temi cardine della psicoanalisi. Mark Solms ci offre un serio e rigoroso tentativo di trovare i nessi possibili fra alcune delle più importanti intuizioni di Freud e le più recenti acquisizioni delle neuroscienze. La lettura di questi scritti copre ormai venti anni di lavoro clinico e teorico di molti psicoanalisti e neuroscienziati e propone modelli originali e stimolanti che arricchiscono gli strumenti di riflessione e di indagine di tutti coloro che da diverse prospettive si confrontano col funzionamento e con i problemi della mente umana.

Gianfranco Buonfiglio

BIBLIOGRAFIA

  • Damasio, A. (2010), Il Sé viene alla mente. La costruzione del cervello cosciente. Tr. It., Adelphi, Milano, 2012.
  • Edelmann, G.M., Tononi, G.A. (2001), Consciousness: How Matter Becomes Imagination. Penguin Books, Limited (UK), ed. It., Un universo di coscienza. Come la materia diventa immaginazione. Einaudi, Torino, 2000.
  • Freud, S., (1899), L’interpretazione dei sogni. Ed. it. in Opere, Boringhieri, Torino, 1967-1980.
  • LeDoux, J. (2002), Il sé implicito. Come il nostro cervello ci fa diventare quello che siamo. Raffaello Cortina, Milano, 2002
  • Mancia, M. (2006), Sonno & sogno. Laterza, Bari.
  • Mancia, M. , a cura di (2007) Psicoanalisi e neuroscienze. Springer Verlag, Milano.
  • Merciai, A., Cannella, B., (2009), La psicoanalisi nelle terre di confine. Tra psiche e cervello. Raffaello Cortina, Milano, 2009.
  • Northoff, G. (2006), Principles of neuronal integration and defence mechanisms; Neuropsychoanalysis hypothesis, in “Neuropsychoanalysis”, 8, pp. 69-84.
    Northoff, G. (2010), Neurofilosofia: introduzione al concetto di neurofilosofia. “Bollettino Filosofico”, 26, pp. 278-297.
  • Panksepp, J., Biven L. (2012), Archeologia della mente. Origini neuroevolutive delle emozioni. Raffaello Cortina, Milano 2014.
  • Solms, M., Turnbull, O., (2004) Il cervello e il mondo interno. Raffaello Cortina editore, Milano, 2004.